Anche in Italia il presidente venezuelano ha molti ammiratori a sinistra. Ma sta diventando un dittatore che governa per decreto e vuole tenersi la poltrona a vita. La denuncia di un oppositore

E di Chavez vogliamo parlare?

Il 26 settembre i venezuelani hanno eletto i parlamentari della nuova Assemblea nazionale che entrerà in carica il 5 gennaio 2011. Nel corso della campagna elettorale il regime ha focalizzato in massima parte la sua attenzione sulla figura del presidente del Venezuela, Hugo Chávez. Il quale, più che sostenere i propri candidati, ha sollecitato un maggiore appoggio al suo progetto di trasformare il Venezuela in uno Stato socialista. Risultato: il 53 per cento degli elettori lo ha respinto. Le prossime elezioni presidenziali sono fissate per il dicembre 2012, ed è senz'altro possibile che Chávez ne esca sconfitto: uno scenario che ha scatenato molteplici reazioni da parte del regime.

La prima è la dichiarazione di un alto ufficiale dell'esercito nazionale, che ha detto: "In caso di vittoria dell'opposizione alle elezioni presidenziali, le forze armate non le permetteranno di andare al governo". E il presidente Chávez ha immediatamente premiato questo "leale" collaboratore promuovendolo al grado di generale in capo. La seconda e più importante reazione è stata l'approvazione, il 5 dicembre scorso, di un pacchetto di cinque leggi volte a creare uno "Stato del potere popolare" parallelo allo Stato costituzionale. Significa, in altri termini, la fine della democrazia rappresentativa: col pretesto di conferire tutto il potere al popolo, si sostituisce l'Assemblea nazionale con un'Assemblea del Potere Popolare, i cui membri saranno eletti dalle "comunas" con voto indiretto, come avviene nei regimi di Cuba o della Libia di Gheddafi, al cui modello si ispira il presidente venezuelano.

In tal modo si eliminerà il meccanismo delle elezioni dirette, delegando la scelta del presidente della Repubblica all'Assemblea del Potere Popolare. Obiettivo fondamentale è preservare a ogni costo il potere dell'attuale presidente venezuelano, evitando di esporlo all'incognita di elezioni dirette, libere e trasparenti che appaiono fin d'ora per lui rischiose.

I gerarchi del regime argomentano che "è in gioco la rivoluzione". Certo. Ma ciò che non ammettono è l'alto prezzo personale che avrebbe per loro, e soprattutto per Chávez, la via dell'alternanza democratica: a occuparsi di loro sarebbero infatti i tribunali nazionali e internazionali, per tutta una serie dei reati che vanno dalla corruzione alla violazione dei diritti umani, fino ai crimini di lesa umanità.
Per portare a termine la sua manovra anticostituzionale il presidente della Repubblica ha sollecitato l'Assemblea a sopprimere la facoltà di legiferare per decreto, e ha inoltre disposto la riforma immediata della legge sulle telecomunicazioni, che gli consentirà di esercitare il controllo su Internet e di imporre restrizioni ai media audiovisivi.

Tutto ciò è reso urgente dall'avvicinarsi della fine di una legislatura assoggettata al controllo totale del presidente - un controllo che potrebbe sfuggirgli di mano: da qui il progetto di un'Assemblea popolare che assecondi la volontà aberrante di perpetuare il potere di Chávez su uno Stato socialista dittatoriale. Una cosa è evidente: in Venezuela la prospettiva che si delinea non è quella di consegnare "tutto il potere al popolo", ma piuttosto "tutto il potere a Hugo Chávez".

Si tratta ora di mobilitare i cittadini per le iniziative previste dalla nostra Costituzione, dalla promozione di un referendum per l'abrogazione delle leggi di cui sopra fino alla disobbedienza civile: è questa l'arma a disposizione dei 67 deputati dell'opposizione, che il prossimo 5 gennaio, data dell'insediamento dell'Assemblea, dovrebbero dichiarare di non riconoscere le nuove leggi in quanto illegittime e contrarie sia alla Costituzione che alla volontà popolare.

Un'azione di questo tipo potrà suscitare un movimento di disobbedienza generalizzata, commisurata alle circostanze che tutti i cittadini venezuelani si troveranno ad affrontare, senza distinzione di posizioni politiche, sociali ed economiche. Restare passivi vorrebbe dire infatti lasciare via libera alla dittatura.

traduzione di Elisabetta Horvat

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