Chi ha voluto così tante centrali in una terra sismica? Tutto iniziò gli negli anni Cinquanta, quando gli Stati Uniti volevano vendere tecnologia e reattori a Tokyo. Da allora nessun governo ha avuto il coraggio di cancellare una scelta a cui la maggioranza della popolazione è stata sempre contraria
Il nuovo nome che scuote il mondo è Fukushima e, per conoscerlo meglio, meriterà ricordare che è la capitale dell'omonima prefettura sull'isola di Honshu, regione di Tohoku, nord del Giappone. Aveva 290 mila abitanti e una centrale nucleare con sei reattori. Gli abitanti se ne sono andati, dei sei reattori quattro sono stati seriamente danneggiati dal combinato disposto di terremoto e successivo maremoto (tsunami) dell'11 marzo scorso. E' fuoriuscito del materiale radioattivo e in tre (numeri 1, 3 e 4) ci sono state delle esplosioni. Si rischia la fusione del nocciolo. Si rischia una catastrofe nucleare. Se sarà una nuova Chernobyl è impossibile dirlo. Cinquanta tecnici, a rischio della vita, stanno cercando di limitare i danni, lavorando alacremente per raffreddare gli impianti. Pompano acqua dal mare: l'uomo torna a strumenti antichi quando la tecnologia avanzata gli sfugge di mano. La centrale è di seconda generazione, dunque già superata da "figlie" più sicure. Ma nemmeno questa "doveva" cedere secondo i parametri di scienziati colti alla sprovvista da un sisma che in quell'area ha raggiunto il grado 8,9 della scala Richter (la centrale era testata per un evento catastrofico di poco inferiore).
Succede in Giappone, Paese all'avanguardia delle conoscenze tecniche e scientifiche, abituato a convivere coi terremoti. Ed è proprio questo dettaglio che determina l'incubo in cui il mondo è precipitato. La radioattività non si arresta alle frontiere, vaga nell'aria trasportata dalle correnti. La paura ancestrale di un nemico invisibile diventa terrore collettivo. E dappertutto (tranne che per il governo italiano) si ripensano, almeno, scelte a favore di un nucleare che chi lo difende promette sicuro. Fino a prova contraria.
I "kami", gli dei dai quali discende e dovrebbe essere protetto il Giappone, hanno colpito duro. La mattina dell'11 marzo il terremoto nella zona nord-orientale del Paese. All'inizio, nessuno si è preoccupato più di tanto. Giapponesi e stranieri da molto tempo residenti (come chi scrive), consapevoli della tenuta degli edifici e della grande opera di prevenzione, hanno pensato all'ennesima scossa dell'anno (oltre 20 mila in media). Solo un po' più forte. I primi bilanci lo confermavano. Due morti, una manciata di feriti, qualche danno alle strutture. Ordinaria amministrazione. Terremoti di intensità molto minore, altrove, hanno provocato migliaia di vittime. Poi però è arrivato lo tsunami. Gigantesco, mostruoso, inarrestabile. Otto, nove, dieci metri. Ha travolto tutto. E questa volta pochi hanno creduto ai primi bilanci ufficiali: venti, trenta, sessanta vittime. Impossibile.
Le prime immagini erano terribili e strazianti. E lasciavano senza dubbi. A una settimana dalla catastrofe, siamo a ventimila, ufficialmente, ma i dispersi sono oltre centomila. E la terra continua, ogni giorno, a tremare. Gli dèi non si sono fermati qui. Si sono scatenati. Dopo terremoto e tsunami, incendi, tempeste di neve, venti micidiali, per complicare ulteriormente i soccorsi. Un po' lenti, per la verità, come non ci si aspetterebbe dal Giappone, ma come è regolarmente avvenuto in passato, dal Grande Terremoto di Kobe, nel 1995 (dove la mancanza di coordinamento delle autorità venne superata dall'efficace mobilitazione della yakuza, la mafia locale) a quello di Nigata, 5 anni fa. Dove l'allora premier Koizumi venne fischiato per i ritardi dei soccorsi e Makiko, figlia dell'ex premier Kakuei Tanaka, "padrino" della regione, si fece fotografare, in tuta e stivali, mentre dava una mano assieme al suo personale esercito di volontari/elettori.
Il governo democratico di Naoto Kan, il premier "ulivista" costretto ad affrontare la più grande crisi politica, sociale e ambientale del dopoguerra, stavolta ha agito con più saggezza e senso pratico. Almeno all'inizio. Catena di comando ben organizzata e via libera, senza tante storie, a tutti i soccorsi offerti da oltre trenta Paesi, Italia compresa (ai tempi di Kobe i cani lupo svizzeri vennero parcheggiati in dogana, perché privi delle vaccinazioni prescritte, e i medici senza frontiere rispediti indietro perché si rifiutavano di firmare che non avrebbero mai operato, neanche in emergenza).
Finché, a complicare il tutto, ecco Fukushima e l'allarme atomico. Che, almeno sinora, non ha fatto cambiare idea sulla futura vocazione nucleare della nazione. In Giappone, contro il parere della stragrande maggioranza della popolazione che in tutti i referendum consultivi (non esistono quelli abrogativi) si è sempre dichiarata contraria alle centrali, hanno costruito e operano, con l'intenzione di raddoppiarle, ben 54 centrali. La maggior parte delle quali edificate, come Fukushima, sulle zone a più alto rischio sismico del pianeta. Arroganza? Irresponsabilità? "La scelta risale agli anni Cinquanta e fu praticamente imposta dagli Stati Uniti che avevano profondi interessi a vendere tecnologia e reattori", spiega Satoshi Kamata, giornalista e scrittore, esperto di questione nucleari. "Poi nessuno ha più avuto il coraggio di rimettere in discussione la faccenda, neanche dopo la serie incredibile di incidenti, una ventina, tra i quali quattro molto gravi. E dubito che anche ora ci sia qualcuno che ci stia pensando".
Non ci stanno certo pensando Naoto Kan e il suo governo. Che, al di là di una sofferta e a volte inconcludente ricerca di mostrare maggiore efficienza e trasparenza rispetto ai passati governi (nel caso di Tokaimura, l'ultimo grave incidente avvenuto nel 1999, si dovette aspettare oltre una settimana per avere conferma ufficiale che un incidente c'era stato e che aveva provocato una fuoruscita di liquido radioattivo) non sta nemmeno prendendo in considerazione l'ipotesi. Nelle ormai quotidiane apparizioni in tv, Kan si è limitato a chiedere ai cittadini di usare meno il cellulare, per risparmiare energia.
Dice Hirotami Murakoshi, membro della commissione etica della Camera, giovane speranza del partito democratico: "Concordo sulla mancanza di informazioni reali e credibili, e sul fatto che molte centrali non vengono gestite in maniera corretta e trasparente, ma l'uscita dal nucleare non solo è impossibile, non è neanche saggia". La posizione più in voga tra i filonucleari "critici", ai quali Murakoshi dichiara di appartenere, è che la tecnologia moderna ha portato il settore a livelli tali da essere, tra le tante fonti, la più "sicura". Cita dati, conteggi, proiezioni. Teoria. La realtà è fatta anche di valori umani, di passioni, emozioni. La realtà è fatta di milioni di giapponesi che in questi giorni vivono, con composto terrore, l'incubo di una contaminazione. Lo fanno in silenzio, rispettando le regole, acquistando (ma senza esagerare, per rispetto degli altri) i generi di prima necessità, tenendo pronto il loro zainetto di emergenza (il cui contenuto è rigorosamente regolato dalle autorità) e tenendosi pronti alla catastrofe. Ma senza panico, senza prendersela, come forse dovrebbero, con il governo o altre autorità. A parte il Nord, ormai di fatto separato dal Centro-sud (strade bloccate, treni fermi, aerei a singhiozzo, servizi postali interrotti), a Tokyo e nel resto dell'arcipelago la vita scorre identica. Scuole e uffici funzionano, bar e ristoranti lavorano a pieno ritmo, grandi magazzini aperti, o quasi. Nel centro di Tokyo, a Shibuya, molti tengono chiuso, o aprono solo certi settori. Alimentari e casalinghi, soprattutto.
Insomma, quanto meno al momento di scrivere non è l'Apocalisse. E stando alle ultime valutazioni degli esperti inglesi e francesi, che di nucleare se ne intendono e nelle cui centrali non si sono mai verificati disastri come negli Usa, in Russia e in Giappone, la situazione è meno pericolosa del previsto. Anche nel "peggior ragionevolmente prevedibile scenario" (cioè il meltdown di uno o più reattori) si legge in un documento interno ottenuto da "l'Espresso", una zona di sicurezza tra i 30 e i 50 chilometri dovrebbe bastare ad evitare qualsiasi ulteriore conseguenza. Tokyo dista oltre 300 chilometri. Neanche i venti, dalla cui direzione molti dicono dipenda l'intensità dell'irradiamento, costituirebbero un elemento decisivo. E il Giappone non è la Russia. Rigorosi, continui controlli sono già in corso su tutti i cibi, dal latte alle verdure. Non esiste che, come avvenne a Chernobyl, la gente continui a mangiare cibo contaminato. Insomma, alla fine potrebbero pagare, e gravemente, solo gli "eroi" di Fukushima, una cinquantina di operai e ingegneri che lavorano notte e giorno per evitare che quello che è ormai diventato un colabrodo faccia l'ultimo, disastroso botto. Un passo avanti, comunque. Nel 1999, a Tokaimura, la centrale fece fare il lavoro sporco ai precari, senza informarli del rischio. Alcuni, erano a mani nude.