Il conflitto in Libia, ridicolo e assurdo, segna un ritorno del colonialismo. E conferma che il capitalismo non è stato superato, come non lo sono le rapine e le appropriazioni indebite
Adesso la sporca faccenda della guerra libica sembra abbastanza chiara, come può esserlo un caso di criminalità diplomatica e bellica. Le due potenze europee interessate a far bottino nello "scatolone di sabbia" dell'era fascista e ora pieno di riserve di petrolio non hanno aspettato la fine dei combattimenti. L'Italia ha spedito a Bengasi il numero uno dell'Eni, il presidente francese Sarkozy ha addirittura convocato a Parigi una conferenza di pace, esempio eccelso di cinismo politico affaristico. Gli italiani che vogliono rimettere le mani sui pozzi gestiti dall'Eni, nei giorni della crisi economica hanno già dato ordine di scongelare 350 milioni di euro di fondi presenti nelle banche italiane da versare ai nuovi governanti libici, anche se non si sa bene chi siano e quali garanzie possano offrire.
Sarkozy ha fatto di meglio, ha convocato a Parigi i nuovi dirigenti libici perché il mondo intero sappia che sta nascendo una nuova forma di protettorato. La Francia, in questa guerra tipicamente coloniale fra due potenze industriali europee e una africana alla mercé dei loro missili e portaerei e caccia supersonici, ha fatto con assoluta noncuranza la parte del predone ricco e prepotente, infischiandosene dei principi immortali di giustizia e libertà delle rivoluzioni borghesi, la loro per prima.
Ecco lo stupefacente, l'incredibile di questa vicenda che spazza via quasi allegramente tutte le buone intenzioni pacifiche e legalitarie nate dall'ultima guerra mondiale. Prima che si chiudesse un secolo la classe operaia dei paesi ricchi ha approvato la guerra di rapina. La Francia evidentemente ci pensava da tempo. Priva di riserve petrolifere, affidata a una produzione atomica quanto mai sbilanciata e rischiosa, ha approfittato del declino dell'impero americano e del suo disinteresse per ciò che accade nel piccolo mare Mediterraneo e ha messo in mostra la sua efficiente aviazione e la sua portaerei per risentirsi grande potenza. L'opinione pubblica europea ha seguito fra preoccupazione e imbarazzo la riproposizione di una storia vecchio stile di cui non si capivano né i rischi né la necessità.
Che senso aveva tornare al vecchio confronto delle navi e degli aerei quando la questione del petrolio era poi una questione di soldi e se darli a Gheddafi e alla sua corte di profittatori e di cortigiani o alla nuova generazione di politici?
Diciamo che questo ritorno di colonialismo è la conferma che il capitalismo non è stato superato, come non lo sono le rapine e le appropriazioni indebite, come non lo sono i mezzi violenti per risolvere tutte le questioni di sopravvivenza e di prestigio.
L'Europa e noi italiani in particolare abbiamo assistito a questa assurda e ridicola guerra nell'età dei commerci internazionali come a qualcosa di incomprensibile. Nessuno si è mosso per aiutare i legittimisti di Gheddafi e la sua corte variopinta, ci andava bene accettare i suoi prestiti alle nostre industrie in difficoltà e dare addirittura un posto in una delle nostre squadre di calcio di serie A a quel brocco di suo figlio, ma senza creare rapporti di amicizia, di ideali politici.
L'Inghilterra vittoriana poteva seguire con ardore l'impresa di Garibaldi, la nostra piccola rivoluzione liberale, o più tardi i nostri comunisti potevano partecipare alla guerra proletaria della Spagna repubblicana. Questa volta gli italiani non hanno parteggiato per nessuno, neppure per i più forti come erano quelli schierati ma non uniti dalla Nato. Strana guerra. Di avventurieri o di personaggi politici indefinibili fra il rosso e il nero, una turba avida che non sa bene cosa voglia da un'Europa unita e civile, se la pace e la democrazia per tutti o solo i buoni affari.