Il pericolo c'è. Ma l'opinione pubblica è contraria. E senza un impegno delle grandi potenze Erdogan non farà il primo passo
Per qualche giorno, la scorsa settimana, il mondo si è chiesto se lo scontro a fuoco tra Siria e Turchia rischiasse di portare a un intervento militare turco in territorio siriano. Perché di fatto alcuni colpi di mortaio, esplosi, a quanto si ritiene, dalle forze siriane, hanno colpito il centro abitato turco di Akçakale, vulnerabile in quanto vicino al confine, causando cinque morti e otto feriti.
La Turchia ha reagito all'incidente martellando per dodici ore le postazioni siriane con un'intensa pioggia di fuoco e uccidendo, secondo le notizie pervenute, 35 soldati. Il governo a guida Akp ha ottenuto dal parlamento una delega ad ampio raggio, che lo autorizza ove necessario a inviare truppe in «nazioni estere», conformemente alle nuove regole d'ingaggio turche. Queste ultime, adottate dopo che nel giugno scorso un aereo di ricognizione è stato abbattuto dai siriani, e il recente voto del parlamento potrebbero portare alla creazione de facto di una «no fire zone» nell'area del confine turco-siriano.
E TUTTAVIA, ALLA DOMANDA iniziale sulla probabilità di una guerra tra Siria e Turchia la risposta più sintetica è "no". Perché Damasco è impegnata a tutto campo a fronteggiare una ribellione che non riesce a piegare. E perché Ankara non si lancerà unilateralmente in un'azione militare contro la Siria, non disponendo dei mezzi per imporre da sola una safe zone. La stragrande maggioranza dell'opinione pubblica turca è contraria a un impegno militare in Siria; e d'altra parte la Turchia dovrebbe vedersela con Mosca e Teheran, che potrebbero renderle la vita molto difficile.
La risposta del governo di Recep Erdogan era in parte finalizzata a placare l'opinione pubblica. Peraltro, già in passato Akçakale aveva subito incidenti analoghi. La cittadina si trova infatti a un tiro di schioppo dalle postazioni della Free Syrian Army (Fsa), in territorio siriano ma a ridosso del confine turco, che si batte contro le forze di Bashar Assad per il controllo dell'area. In un certo senso, il recente episodio era dunque un disastro annunciato.
FINO A POCO TEMPO FA l'Fsa aveva la sua base in territorio turco. Secondo numerose fonti, seppure non confermate ufficialmente, le sue truppe venivano in parte addestrate in Turchia; e le armi fornite ai combattenti, così come gli aiuti in denaro provenienti dall'Arabia Saudita e dal Qatar, arrivavano in Siria passando per la Turchia.
Ma i problemi che Ankara deve affrontare oggi vanno al di là di questo incidente, col suo gravoso costo in vite umane. Sono passati ormai quasi 19 mesi dall'inizio della rivolta siriana, e non si riesce a vederne la fine. Sulla questione siriana i responsabili della politica estera turca hanno commesso una serie di errori. Una maggioranza di quasi due terzi dell'opinione pubblica turca disapprova la politica del suo governo nei confronti della Siria e il 75-80 per cento è contrario all'intervento militare.
Sulla scena internazionale, Ankara non è riuscita, malgrado la sua politica iperattiva, a convincere gli organismi internazionali e gli alleati a intervenire. La crisi siriana ha posto in luce l'immenso divario tra gli obiettivi, le ambizioni e aspirazioni della Turchia e le sue effettive capacità. Oltre tutto, in questi ultimi tempi la presenza di decine di migliaia di rifugiati sta generando nel Paese un profondo disagio.
È chiaro che il conflitto siriano va al di là dei confini di quello Stato, e chiama in causa le potenze regionali e globali interessate a influire sui nuovi equilibri di potere in Medio Oriente.
Le potenze occidentali sono poco propense a impegnarsi in Siria, a fronte dell'inattesa tenacia di quel regime. A rendere il quadro ancora più complesso concorrono il persistente sostegno militare iraniano e la copertura diplomatica assicurata da Mosca al regime retto dal Baath. Gli Stati Uniti suggeriscono, con toni promettenti, che potrebbero giocare un ruolo più attivo dopo le elezioni presidenziali, ma di fatto nulla garantisce che lo faranno.
LO SCENARIO È DUNQUE pronto per quella che sembrerebbe una missione impossibile: arrivare a un accordo internazionale, per trovare il modo di proteggere una popolazione ormai allo stremo e orchestrare una transizione ordinata. In questo contesto, sarà di primaria importanza l'impegno per evitare sanguinose ritorsioni e la tutela delle minoranze. Chiaramente, la Turchia avrà un ruolo importante da svolgere in questo senso, ma dovrebbe innanzitutto rivedere la politica che ha portato avanti in questi ultimi diciotto mesi. Dovrà fare i conti con le proprie limitazioni e cercare, malgrado le difficoltà che sembrano insormontabili, di dialogare con Teheran e Mosca.
In assenza di un impegno più multilaterale, unico modo per salvare la situazione in Siria, l'alternativa è il rischio di un allargamento del conflitto. Per quanto la Turchia sia riluttante a far uso dei suoi muscoli militari, l'incidente che ha colpito Akçakale sta a dimostrare quanto questo pericolo sia grande.