Con l’accordo sul nucleare, l’Iran è tornato nel gioco diplomatico da protagonista. E sarà decisivo in tutto il Medio Oriente

Nessuno può sapere, ora, se l’accordo con l’Iran sul programma nucleare raggiunto a Ginevra dal gruppo 3+3 (le potenze Stati Uniti, Russia e Cina e, in rappresentanza dell’Europa, Inghilterra, Francia e Germania) sarà rispettato da Teheran. Le interpretazioni sono tutte lecite e comprese nella gamma che va dal pessimismo assoluto di Bibi Netanyahu all’ottimismo di Barack Obama. Il regime degli ayatollah troppo spesso, in passato, ha parlato “con lingua biforcuta” per pretendere che la diffidenza sia vinta grazie alla firma su un documento. Alcuni indizi però fanno propendere per un cauto ottimismo. Anzittutto la firma stessa: non c’era mai stato, prima, un impegno formale. Poi alcuni passaggi del testo del patto dove si prevede esplicitamente «l’accesso giornaliero» degli ispettori dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) nelle centrali di arricchimento dell’uranio per verificare che la quota adatta agli usi civili non ecceda la soglia fissata, che non si tenti insomma di fabbricare la bomba. Infine la necessità per l’Iran di eliminare le sanzioni che l’hanno ridotto allo stremo.

Comunque finisca, c’è però un risultato che si deve considerare acquisito. Si prende indirettamente atto che esiste, in Medio Oriente, una potenza regionale, l’Iran, senza la quale è impossibile pacificare l’area. E che non può essere isolata, come è successo, dal resto della comunità internazionale. Con questa realtà bisogna trattare, piaccia o non piaccia, anche a costo di rimettere in discussione alleanze consolidate e strategie che hanno mostrato il fiato corto. Come quella di George W. Bush il quale aveva individuato nel triangolo virtuoso Gerusalemme-Ankara-Baghdad (la Baghdad della sua “democrazia esportata”...) l’asse su cui l’Occidente avrebbe potuto appoggiarsi per esercitare la propria influenza. Ma, dopo l’invasione e nel mezzo di un irrisolto dopoguerra, in Iraq è cresciuto proprio il peso di Teheran sui correligionari sciiti prima vessati dai sunniti di Saddam Hussein. La Turchia non ha saputo giocare un ruolo nel conflitto che insanguina la confinante Siria e Recep Tayyip Erdogan ha compiuto passi falsi clamorosi nel suo tentativo di conciliare Islam e diritti civili. Infine Israele non è mai stato tanto lontano da Washington a causa di un premier che non fa mistero della sua inclinazione verso i repubblicani e che con Obama ha alzato anche un muro dovuto a una viscerale antipatia personale: non si creda che in politica non contino anche elementi della psicologia.

Piantati nel cuore di un’area ad alta infiammabilità, gli ayatollah sono passati alla cassa per incamerare il dividendo della loro rendita di posizione. Dipende (anche) da loro il futuro dell’Iraq, nulla può succedere nella Siria del macellaio Bashar Assad senza il loro coinvolgimento e infatti sono stati già invitati alla nuova tornata di colloqui il 22 gennaio sempre sul lago Lemano (si capisce adesso il freno tirato da Obama sui raid contro Damasco quando stava giocando una partita assai più ambiziosa, visto che i contatti informali e segreti con l’Iran si fanno risalire al marzo scorso). Quando i soldati Usa lasceranno l’Afghanistan, l’apporto di Teheran per la stabilità dello sfortunato Paese sarà decisivo.

Per far posto al nuovo attore diplomatico dell’area, Obama ha dovuto sopportare i musi lunghi di partner storici come Israele e Arabia Saudita. L’America non avrebbe mai scontentato quest’ultima se non fosse vicina all’autosufficienza energetica e non fosse finalmente in grado di sottrarsi al ricatto del petrolio. Quanto a Israele, la Casa Bianca non se l’è sentita di seguire lo Stato ebraico su posizioni che, presto o tardi, sarebbero sfociate nel dilemma se bombardare o meno i siti nucleari iraniani ed eventualmente entrare in un conflitto dalle conseguenze imprevedibili. Riyad, alla notizia dell’accordo di Ginevra, dapprima ha fatto seguire un assordante silenzio e poi dichiarazioni improntate alla prudenza. Gerusalemme invece, dopo i fuochi d’artificio di Netanyahu e le frasi apocalittiche sull’«errore storico» commesso, in modo pragmatico si è messa sua volta a trattare. Sta cercando di infilare dei suoi “consiglieri” che affianchino gli statunitensi nei team che dovranno monitorare l’affidabilità degli iraniani. Per avere un’influenza sull’attuazione del patto dopo averlo subito. E a dimostrazione che, nonostante un presidente giudicato “debole”, Israele non può permettersi un’America ostile.

g.riva@espressoedit.it

 

L'edicola

Voglia di nucleare - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso

Il settimanale, da venerdì 28 marzo, è disponibile in edicola e in app