La capitale dell’Azerbaigian ha cambiato faccia. Palazzi, musei, cultura, arte, discoteche e bella vita. Il futuro è qui. Grazie ai soldi del petrolio. Che però finiscono sempre nelle tasche della dinastia Aliyev al potere

Tutto era grigio, ora invece è sfavillante». Ayna ha 25 anni, occhi come acqua e pelle ollivastra, viene dal nord dell’Azerbaigian e sul volto porta l’affascinante sintesi di parte delle 26 etnie che compongono il suo villaggio, di appena 1.500 anime, arrampicato sul Caucaso. Quello è il suo passato, adesso Ayna guarda al futuro da una posizione privilegiata: direttamente dal tempio del nuovo Azerbaigian, la candida, sfrontata e futurista struttura disegnata a Baku dalla star irachena dell’architettura Zaha Hadid per farne il moderno mausoleo di Heydar Aliyev, il padre post-sovietico della patria (ma nemmeno troppo post, era il capo locale del Kgb). «Certo non tutto a Baku è a portata di mano, ma le cose cambiano e in meglio», assicura Ayna mentre spiega, con l’ufficialità della guida da museo, come il padre della patria ha conquistato sua moglie, per poi fondare una stirpe.

[[ge:rep-locali:espresso:285113431]]Intorno al Centro Heydar Aliyev, inaugurato il 10 maggio 2012 dal frutto di quella conquista, il figlio Ilham, rieletto con percentuali para-bulgare il 9 ottobre per la terza volta alla testa dello Stato, le cose effettivamente cambiano. Dal lungomare, con il nuovo porto, hotel e palazzi in costruzione, fino all’aeroporto (a giorni aprirà il nuovo terminal a forma di fusoliera) la città è un enorme cantiere a cielo aperto. Frase fatta, quanto reale. La modernità a Baku è arrivata a ondate e questo è uno dei momenti in cui l’onda colpisce più forte. La capitale oggi guarda a Dubai, quando un secolo fa era la Parigi del Caucaso, cambiano i riferimenti, ma non la voglia di stupire. File di camion scaricano materiale edile, trasportano sabbia e terra, operai azeri, ma anche dal Bangladesh e dalle Filippine, riempiono come formiche i cantieri, aperti giorno e notte, enormi gru popolano lo skyline di una città dominata dalle Flame Towers, le tre torri alte 190 metri che riprendono il simbolo nazionale della fiamma e che dall’imbrunire all’alba, grazie ai 10 mila pannelli Led che le adornano, brillano come fiamme, visibili da tutta Baku. Fiamme moderne ma che traggono forza da una linfa antica, quella che da oltre un secolo e mezzo muove Baku: il petrolio. «Senza il petrolio non potremmo parlare di rinascita culturale», spiega il ministro del Turismo Abulfaz Garayev, un tipo che spende 7 miliardi all’anno per promuovere il Paese nel mondo, soprattutto tra i ricconi della Penisola arabica e i nuovi ricchi dell’Estremo oriente, ma senza disdegnare il fantastico mondo del calcio: il governo versa 16 milioni all’anno all’Atletico Madrid per portare il nome del Paese sulla maglia.

Il petrolio, non certo una novità. I viaggiatori della via della Seta tornavano in Europa narrando meravigliati di fiamme che fuoriuscivano dal suolo, nel 1849 lungo la penisola di Absheron, sulla cui punta sorge la capitale, è stato aperto il primo pozzo petrolifero al mondo e poi pianificato il primo sfruttamento industriale dell’oro nero. Un’attività che ha attirato industriali, come i fratelli Nobel, avventurieri, spie e rivoluzionari, uno tra tutti il georgiano Stalin: cercava adepti al comunismo tra i lavoratori dei campi petroliferi mentre intorno alle mura dell’antica città ottomana sfilavano tram e fiorivano palazzi, magazzini e lussuose dimore disegnate da architetti francesi, tedeschi e polacchi, specchio fedele di una società cosmopolita, multietnica e multireligiosa. Nel 1910, dopo appena 11 mesi di lavoro, il magnate Daniel Mailov inaugurava il primo teatro dell’Opera dell’intera Asia, costruito per rispondere al capriccio della famosa soprano russa Antonina Nezhdanova, che per tornare a Baku voleva un’arena consacrata alla lirica, entro un anno. La finirono prima. Nel 1918, quando tra l’impero russo e quello sovietico l’Azerbaigian prese una boccata di indipendenza, venne dato il voto alle donne.

«Baku è stata un centro della via della Seta, che ora sta facendo risorgere con un impressionante progetto di infrastrutture per collegare Pechino a Berlino in dieci giorni via terra, grazie al petrolio era una delle città più internazionali della Russia zarista ed anche dell’Urss, è stata ed è ancora uno dei centri mondiali del jazz, la città trasuda valori speciali e anche ora che russi, ebrei e armeni se ne sono andati, quello spirito è vivo: questo è uno dei posti più tolleranti del mondo», assicura Farda Asadon, direttore del dipartimento di Studi Arabi dell’Accademia della Scienza, mentre sorseggia un tè in un bar del centro. «Il petrolio», continua Asadon, «ha sempre avuto un impatto sul tessuto urbano, è successo con l’art nouveau e ora è lo stesso con i capolavori dell’arte contemporanea». Un’impronta di modernità che conquista e che vuole imporre la città tra i nuovi centri planetari, sfruttando anche quel traino che solo lo sport sa offrire. Baku, candidata, per ora senza successo, alle Olimpiadi, sarà nel 2015 la sede dei primi Giochi Olimpici Europei, ha già ospitato i Mondiali femminili di calcio under 17, le Final four di pallavolo femminile e il rutilante campionato del mondo di motonautica, senza scordare il contest musicale Eurovision. Un’immagine forte, che affascina, ma che può anche abbagliare.

«I palazzi sono solo una facciata, vogliono dare agli azeri e al mondo l’immagine di risorse illimitate a cui, però, c’è un accesso limitato». Khadija Ismayilova, giornalista 37enne, dà il suo giudizio sulla nuova Baku tra un programma e l’altro di Radio Free Europe, una delle poche voci libere dell’Azerbaigian. Con le sue parole disegna i contorni di un circolo vizioso. «I giovani sono ispirati da questi palazzi, vogliono far parte di questa modernità, ma come fanno a partecipare senza diritti politici ed economici e vivendo in uno Stato corrotto? L’accesso alla modernità ce l’hanno solo gli Aliyev: è tutta una facciata, un buon modo per non suddividere i soldi del petrolio con il popolo». Sulle ali dell’oro nero e del gas, che finiscono in gran parte in Italia, Paese che assorbe un terzo delle esportazioni azere, il Pil pro capite è esploso negli ultimi anni, passando da 850 a 7.850 dollari, e la tendenza non accenna a diminuire: nel 2013 la crescita sarà di oltre il 5 per cento. Ma il Pil pro capite, si sa, è solo una fredda media. «Il Pil è figlio del petrolio e del gas, ma negli idrocarburi lavora pochissima gente, i salari sono un’altra cosa: un mio amico medico guadagna 150 dollari, lo stipendio massimo è di 200 e i prezzi sono alti, tutto ciò aiuta la corruzione», spiega Arif Venusov, dell’Istituto per la Pace e la Democrazia.

«Tutto è in mano al presidente, a sua moglie, alla sua famiglia, sono loro che governano Baku e tutto il Paese, e li trasformano come vogliono», incalza Ismayialova. «Dietro alle Flame Towers c’è una compagnia delle Isole Vergini controllata dal presidente, un altro edificio emblematico, il Four Seasons Hotel, è del suocero del presidente». Secondo la classifica mondiale di Transparency International, l’Azerbaigian figura al 139esimo posto su 176 paesi censiti quanto a trasparenza.

Un clan che non sembra ammettere concorrenti, in tutti i campi. Gira infatti voce che tra le scintillanti boutique e tra i negozi del centro, in cui il gotha del lusso mondiale è rappresentato, manchino i marchi di Ferrari e Gucci, perché presidente e consorte non vogliono che altri azeri possano guidare o portare i loro marchi preferiti. Non voci, ma immagini video sono invece quelle utilizzate per intimidire la Ismayilova, vincitrice del Women’s Media Foundation’s 2012 Courage in Journalism Award proprio per le sue inchieste sul clan Aliyev. «Sono entrati in casa mia, hanno piazzato delle telecamere nascoste e mi hanno ripreso mentre ero a letto con il mio ragazzo, ma non mi mettono a tacere», promette battagliera.

La concentrazione delle risorse allontana da Baku anche l’etichetta di nuova Dubai. «Dubai vuole essere il modello ma non lo è», assicura Asadon. «I paesi arabi hanno un sistema tribale di ripartizione della ricchezza, istituzioni non democratiche, ma tradizionali e riconosciute. L’Azerbaigian non le ha, avremmo bisogno di un modello trasparente di suddivisione della ricchezza e di erogazione dei servizi, dall’istruzione alla sanità». Non è più Parigi, non sarà Dubai. È Baku, sfacciata fuori e socialmente fragile dentro.

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