Il conflitto sunniti-sciiti dipende anche dall’energia. Il primo Paese può reggere un costo basso dell’oro nero. Mentre il secondo rischia forti tensioni sociali

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Sotto gli 80 dollari al barile sarà guerra aperta sul mercato del petrolio. Non manca tanto: il greggio, misurato con lo standard internazionale del Brent, è già sceso al di sotto degli 85 dollari, ovvero di quasi il 30 per cento rispetto ai valori di sei mesi fa. Si tratta di una brutta caduta di prezzo che non si limita solo ad influenzare i mercati delle materie prime ma che sta già causando inaspettate conseguenze politiche internazionali.

I primi segnali che la recente fluttuazione del Brent fosse preoccupante li aveva dati il ministro del petrolio saudita Ali al-Naimi che a fine settembre era sparito in vacanza subito dopo avere dichiarato che non giudicava rilevante la caduta del prezzo del Brent e che a tagliare la produzione in sostegno del prezzo, come tradizionalmente ha sempre fatto l’Arabia saudita, non ci pensava affatto. Secondo i maligni la vacanza è stata solo la scusa migliore che ha trovato per sparire di scena mentre il potente principe al-Waleed bin talal, membro della famiglia reale, lo criticava pubblicamente rinfacciandogli di mettere a rischio con il suo atteggiamento rilassato le ingenti riserve di denaro saudita.

Ma scegliere in modo sapiente tra il mantenimento delle proprie quote sul mercato internazionale del greggio e l’equilibrio del bilancio nazionale di un Paese la cui economia dipende per il 90 per cento dal petrolio non è facile. E non lo è mai stato. Certo l’Arabia Saudita gode di una sostenibilità finanziaria molto elevata tra i Paesi produttori, visto che il prezzo del greggio può scendere intorno ai livelli attuali e ancora consentire il pareggio di bilancio rispetto ad una Russia messa in difficoltà da prezzi al di sotto dei 100 dollari al barile, un Iran che soffre sotto quota 130 dollari o una Nigeria completamente in crisi col greggio al di sotto dei 140. Però negli anni Ottanta quando il prezzo del petrolio raggiunse gli infimi livelli di poco più di 22 dollari al barile l’Arabia Saudita decise di tagliare la produzione per incrementare i prezzi, nessuno la seguì e si ritrovò da sola con il prezzo più alto di tutta la regione. Ci vollero lunghi e difficili anni per recuperare le quote di mercato perse. E Al-Naimi non se lo è affatto dimenticato.

Questa volta la situazione è ulteriormente complicata dall’ingombrante ombra degli Stati Uniti sul Medio Oriente. Non si tratta solo di stivali militari ed editti politici ma anche di pesantissimi barili di petrolio. Negli ultimi dieci anni la produzione americana di “shale oil”, ovvero di petrolio estratto dalla roccia con acqua sparata ad alta pressione (petrolio da argilla), ha subito un incremento esponenziale e dal 2011 sta aggiungendo tre milioni di barili al giorno di capacità addizionale all’offerta mondiale. Non solo gli Usa stanno diventando energeticamente indipendenti ma, limitando i propri acquisti sul mercato internazionale (per legge non possono ancora esportarlo), sono già oggi i principali responsabili del crollo del prezzo del petrolio, mettendo in crisi il tradizionale potere dei Paesi esportatori riuniti sotto il cartello dell’Opec. Questo particolare si staglia su uno scenario internazionale molto diverso da quello offerto dal boom economico mondiale della decade scorsa: da una parte le fabbriche di Cina e Germania, le locomotive della crescita mondiale, hanno nei mesi recenti cominciato a dare segni di stanchezza e ad assorbire meno energia, dall’altra la Libia ha ripreso a pompare petrolio nonostante l’incombente guerra civile e perfino l’Isis finanzia le sue gesta crudeli esportando petrolio iracheno. Conclusione numero uno: l’offerta di petrolio è oggi ben superiore alla domanda. Numero due: la variazione marginale del prezzo internazionale al barile per la prima volta non è più determinata dall’Arabia saudita ma dagli Usa, o meglio, dal costo di estrazione del petrolio americano.

Se il prezzo di produzione dello shale oil è molto alto alle raffinerie americane converrà comprare petrolio sul mercato internazionale. Se, al contrario, è in linea con il costo di ricerca ed estrazione dai pozzi tradizionali allora non c’è bisogno di guardare oltre i confini nazionali e il prezzo internazionale sarà spinto al ribasso.
Secondo le stime dell’Opec il livello di equilibrio finaziarioper le aziende estrattive americane si aggira intorno ai 70-75 dollari al barile prendendo a riferimento lo standard Usa, il West Texas Intermediate, che è di circa 10 dollari più basso del Brent. Ovvero tra gli 80 e gli 85 dollari al barile di greggio Brent: più o meno il punto a cui si trova in questi giorni. Al contrario, l’Agenzia internazionale per l’energia ha recentemente dichiarato che occorrono prezzi di vendita più bassi per mettere un freno all’offerta statunitense e che solo il quattro per cento della produzione di petrolio da argilla richiede prezzi superiori agli 80 dollari al barile per essere conveniente.

Secondo un recente rapporto di Morgan Stanley, in questi ultimi cinque anni di prezzi del petrolio relativamente alti i produttori americani hanno avuto tempo sia per ammortizzare il costo di acquisto dei terreni di sfruttamento che per diventare sempre più efficienti nell’estrazione tanto che i costi in molti casi hanno raggiunto un livello compreso tra i 30 e i 60 dollari al barile. Senza contare che praticamente tutti i produttori sono coperti dal rischio di fluttuazione dei prezzi almeno per un anno attraverso una serie di operazioni finanziarie di hedging.

In questa grande confusione l’Arabia Saudita, ancora il maggiore esportatore petrolifero mondiale, dopo settimane di silenzio, all’inizio di novembre, tre settimane prima del cruciale incontro dei paesi Opec il prossimo 27 novembre, ha deciso di scoprire le proprie carte e ha abbassato il prezzo del petrolio venduto in Nordamerica mentre ha alzato quello venduto in Asia. Una mossa che ha reso chiara la sua intenzione di tentare di mettere fuori gioco i più deboli produttori americani e frenare - nel medio periodo - la discesa dei prezzi mondiali. Secondo gli analisti l’Arabia, forte di riserve in valuta estera di 750 miliardi di dollari, potrebbe permettersi addirittura un biennio di prezzi bassi (almeno verso l’Occidente) che le costerebbe solo tra i 10 e i 20 miliardi di dollari e che costringerebbe gli americani a tagliare la produzione. Così facendo poi finirebbe anche - dettaglio non trascurabile - per danneggiare il vicino Iran, con cui compete per il dominio politico dell’area mediorientale e che con lo sfacelo dell’Iraq si era recentemente rafforzato.

Il Paese degli ayatollah è particolarmente debole. Aveva messo in bilancio per quest’anno una lieve ripresa dell’economia intorno all’1,5 per cento e del 2,3 per cento l’anno prossimo. Invece, ancora strangolato dalle sanzioni economiche internazionali che limitano le sue esportazioni petrolifere, si è pure ritrovato il barile di greggio al di sotto dei propri equilibri finanziari, costringendolo a scegliere tra mettere mano alle riserve strategiche per pagare i funzionari pubblici e tagliare i sussidi di carburante ai cittadini. Quest’ultima sarebbe una mossa politicamente pericolosa: in un Paese dittatoriale ormai disilluso dalla rivoluzione komeinista il consenso si ottiene aprendo i cordoni della borsa di Stato. Riducendo i sussidi si rischia di ridurre anche la pazienza.

La speranza dell’Occidente è che una tale prospettiva induca l’Iran ad essere più ragionevole il prossimo 24 novembre quando i membri del consiglio permanente delle Nazioni Unite affiancati dalla Germania si riuniranno a Ginevra per cercare di concludere le negoziazioni sul suo programma nucleare. Non sarà facile. Il tentativo dello scorso giugno è fallito. Teheran ha ben presente sia il disastro in cui è sprofondato l’Iraq per non essersi voluto aprire agli osservatori internazionali sia la tragedia in cui si è ritrovato il colonnello Gheddafi per avere rinunciato ad ogni arma nucleare. Vorrebbe un accordo che spalancasse uno degli ultimi mercati vergini al mondo alle multinazionali e che desse una scossa alla sua economia. Ma anche che le lasciasse uan carta da giocare nel caso in cui le cose si mettessero male.

Se alla fine una soluzione sarà trovata l’Iran potrebbe ricominciare a pompare petrolio con il rischio che il prezzo accelererebbe la caduta. Ma, con buona pace di Usa, Arabia Saudita e Russia, forse a quel punto l’Iran potrebbe finalmente essere un attore secondario del gioco nero, impegnato a virare la sua economia su altri fronti e a renderla sostenibile oltre i confini dei pozzi e della geopolitica mediorientale.

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