Il rifiuto del consumismo. La legalizzazione della marijuana. La legge sul matrimonio gay. La redistribuzione della ricchezza attraverso ?i servizi sociali. Parla il presidente
Nell’ufficio di vetro al dodicesimo piano del nuovo palazzo presidenziale, al centro di Montevideo, tutto richiama il suo stile: sobrietà. Ma anche modernità ed efficienza. Unica concessione alla civetteria, una chitarra che gli è stata regalata dalla banda hard rock degli Aerosmith.
José Alberto Mujica Cordano, 78 anni, detto “El Pepe”, capo di Stato dell’Uruguay, ha una camicia coloniale e, al contrario dei suoi concittadini che preferiscono il mate, sorseggia una tazza di tè. Gli occhi sono due fessure furbe annegate in un volto largo e pacioso. L’immagine di un “buon nonno”, come lo dipinge non senza una punta di malizia quella parte di sinistra interna che lo rimprovera di non aver spinto fino in fondo la sua sfida al capitalismo. O l’emblema della semplicità rivoluzionaria arrivata al potere, come lo descrive invece la sinistra internazionale sempre in cerca di eroi.
[[ge:rep-locali:espresso:285489538]]“El Pepe” non si cura del dilemma. Senza alzare i toni, durante l’intervista a “l’Espresso”, non dà mai l’impressione di difendersi: si descrive. Come a voler sottolineare: io sono così, pensatela un po’ come volete. In un Occidente alle prese con una classe dirigente famelica e corrotta (fenomeno non solo italiano), la cifra della sua distinzione è la decisione di trattenere per sé solo il 10 per cento dei 12 mila dollari che sono l’appannaggio per la carica e dare il resto ai meno abbienti. «Populismo! Demagogia!», lo criticano da destra. Mujica alza le spalle: «Non ho nulla da rispondere. La mia è pratica. Faccio così da quando sono in politica, da più di vent’anni. È il mio modo di vivere. Non lo voglio imporre a nessuno. Ma me lo tengo». Che nessun ministro abbia seguito l’esempio, lo lascia indifferente: «Sono libertario. Ciascuno faccia ciò che vuole». A patto che non gli vengano rimproverate certe deroghe al protocollo istituzionale («Sono in guerra con la cravatta, mai l’ho messa e mai la metterò»).
Guida un “maggiolino” degli anni Settanta e invece di trasferirsi nell’opulento palazzo presidenziale continua a vivere nell’umile “rancho” in periferia (una camera e una cucina ricoperta da un tetto di zinco) con la sua Lucia: Lucia Topolansky, 69 anni, senatrice. E anche lei, come lui, ex militante dei Tupamaros, gruppo armato che si ispirava alla rivoluzione cubana.
Nella biografia del “Pepe”, le tracce di un’esistenza ricca di ostacoli, privazioni, antiche sofferenze. Il padre Demetrio, basco, agricoltore, finito in rovina e morto quando il futuro presidente aveva 5 anni; la madre Lucia Cordano, discendente da una modesta famiglia di emigranti liguri. Poi la scelta della lotta politica, i 14 anni trascorsi in carcere dei quali due in isolamento dentro un pozzo, durante la dittatura. Anni che ora rievoca così: «Peggio della solitudine c’è solo la morte. E quando si resta a lungo soli, come lo sono stato io, bisogna difendersi dalla pazzia. Mi hanno tenuto otto anni senza leggere un libro. Visto che avevo delle allucinazioni ho chiesto di avere dei volumi di scienza, chimica, fisica. Permettermi di studiare era per loro più conveniente di curare un pazzo. Si può dire che mi sono salvato grazie alle loro necessità economiche». Per due volte riuscì a evadere: «C’è voluta una lunga preparazione, una perfetta conoscenza della vita in galera, lo studio dei punti deboli. E, con pragmatismo, la capacità di “comprarsi” qualcuno. Scappare da un carcere non è cosa da angioletti».
[[ge:rep-locali:espresso:285117150]]L’Uruguay è «alla fine del mondo» come direbbe papa Francesco. Paese periferico ricordato sinora forse solo per il Campionato del mondo di calcio vinto in finale col Brasile, nel 1950, a casa loro (e quest’anno c’è un altro Mondiale a Rio de Janeiro). Poi arriva Mujica alla presidenza e lo mette al centro della scena. Grazie al coraggio di scelte libertarie che sono dibattito in pressoché tutto il primo mondo: matrimonio gay, aborto legale, liberalizzazione della marijuana dalla produzione al commercio. “NewYork Times”, “Economist”, “Guardian” lo consacrano leader di statura mondiale. Montevideo diventa una stella polare della sinistra. José Muijca si schermisce, preferisce inserire la sua svolta in un alveo storico: «Già nel 1915 l’Uruguay fabbricava e distribuiva alcol e lo Stato ha controllato la vendita nei successivi cinquant’anni. Nello stesso periodo ha riconosciuto la prostituzione e sempre in quell’epoca la possibilità del divorzio su richiesta della donna. Abbiamo una lunga tradizione d’avanguardia nelle sperimentazioni sociali».
Ma se c’è un Mujica “for export”, un prodotto che tira, è all’interno dell’Uruguay che il mito non attecchisce come altrove. Il pauperismo diventa spesso trasandatezza. Le battaglie per i diritti un modo per nascondere le difficoltà in economia se, in presenza di un calo della povertà media, sono aumentate le diseguaglianze sociali, il caro vita alimenta la violenza e il narcotraffico è sempre più presente. E poi la crisi di rapporti con l’Argentina, le concessioni alle multinazionali per le sperimentazioni Ogm o per le miniere e cielo aperto.
Il presidente ascolta l’elenco e con calma obietta: «Il reddito medio è di circa 16 mila dollari pro capite. So che le cifre sono arbitrarie e quando si parla di media normalmente i piccoli affogano. Ma economicamente stiamo meglio degli altri vicini: Argentina, Paraguay, Bolivia, lo stesso Brasile. Il nostro è storicamente un Paese che ha distribuito meglio la ricchezza». Resta il fatto che i prezzi dei beni sono i più alti dell’intera America Latina. «È naturale. Abbiamo maggiori servizi sociali. Molti uruguaiani che vivono negli Stati Uniti, ad esempio, se si ammalano tornano in patria a curarsi».
Il “presidente più povero del mondo”, come lo definiscono, si prende un altro sorso di tè e sembra quasi fare un bilancio, non solo del mandato ma della sua esistenza: «Ho vissuto il sogno di cambiare la storia dell’uomo e creare un’umanità senza sfruttamento con quell’utopia che si chiamava socialismo. Quello che abbiamo imparato, io e i miei compagni - e prima non lo sapevamo - è che la vita è bella e non si deve commettere l’errore di sacrificare un’intera generazione in nome di un sogno».
Sembra quasi un postumo “addio alle armi”, una revisione del suo stesso passato, ma viene subito corretta: «Le passioni rivoluzionarie ci saranno sempre, per fortuna. L’essere umano ne ha bisogno è una sua esigenza profonda. Ci sono sempre state e sempre ci saranno persone che hanno combattuto e combatteranno per l’uguaglianza sociale, per il benessere collettivo. Come ci sarà sempre l’altra parte, quella più conservatrice. Due aspetti che fanno parte dell’animo umano. Poi con la Rivoluzione francese si sono coniati i termini di destra e sinistra». Come fosse un testamento politico, vuole precisare: «Non può esserci uguaglianza se non esiste la libertà. Uguaglianza non significa l’identico, la natura rifiuta l’identico. La libertà è importante per sviluppare le potenzialità di ciascuno di noi. La massificazione cerca di cancellare l’identità. Si vuole, anzitutto che noi si sia dei consumatori. Quanto più consumiamo, tanto più siamo funzionali al sistema».
La sua frugalità lo toglie dal mazzo. Cita Seneca: «Povero non è chi ha poco ma chi vuole molto. Io non sono povero, semplicemente vivo in in modo austero. Questa è la vera libertà». E non è negoziabile: «Non ho bisogno di molto denaro per vivere felice. E non penso di accumularne adesso, a 78 anni. Dovrei essere un pazzo. Se esistono dei vecchi, pazzi e miserabili che sono preoccupati di moltiplicare la loro ricchezza, beh, quello è un loro problema. E comunque non se la possono portare nella tomba».