
Sono passati 13 anni. Bin Laden è stato ucciso, molti suoi luogotenenti hanno avuto la stessa sorte o sono finiti a Guantanamo. Il successore Ayman al-Zawahiri con una piccola corte di fedelissimi si nasconde probabilmente nelle aree tribali del Waziristan. Ma al-Qaeda, quasi nel disinteresse per la presunzione di una guerra vinta dalle democrazie, ha generato: figli legittimi, illegittimi, ribelli e addirittura ostili. Divisi da spicciole questioni di potere, ma accomunati dagli stessi obiettivi: creare il Califfato, imporre la Sharia, ammazzare i miscredenti con una ferocia in qualche caso addirittura superiore a quella della casa madre. Tra Africa e Medioriente di Jihadistan, aree dove ha vinto la guerra santa, oggi ce ne sono almeno sei (vedi cartina alle pagine 74-75). Dove i fondamentalisti imperversano nell’assoluta impotenza degli Stati dentro i quali si sono ricavati una loro regione indipendente. Se sono tutti variamente pericolosi uno lo è di più. È appena stato creato. Si estende da Aleppo,Siria, a Mosul, Iraq, lungo circa 500 chilometri, ed è stato battezzato Isis, Stato islamico di Iraq e Siria, con un acronimo che è esso stesso una sfida all’accordo Sykes-Picot del 1916 con cui Francia e Inghilterra definivano di fatto confini naturalmente non riconosciuti da chi sogna un’unica “umma” (comunità) per tutti i musulmani. Il suo misterioso emiro Abu Bakr al Baghdadi può contare, secondo alcune stime, su un patrimonio di un miliardo e mezzo di dollari, racimolato tra donazioni e razzie nelle banche (non è ricco di famiglia come lo era Osama che garantiva in proprio il finanziamento), e ha ai suoi ordini circa diecimila combattenti, addestrati, ben armati e soprattutto motivati. Ci sono fanatici del Jihad internazionale ma anche ex dell’esercito di Saddam Hussein convertiti. Ha il sostegno di una parte della popolazione sunnita che si sente giustamente vessata dal governo centrale di Baghdad dello sciita Nuri al-Maliki.
Tutto questo fa dell’ Isis, cioè di una parte dell’Iraq di oggi, non l’Iraq di prima dell’invasione, ma l’Afghanistan di 13 anni fa. Naturalmente tra molte differenze, perché la storia non si ripete mai nello stesso modo. Dunque bisogna intervenire, dopo aver spiegato per bene ad opinioni pubbliche distratte dal Mondiale di calcio perché lo si fa? Se la risposta istintiva ed emotiva (sull’onda dei risultati prodotti dalla sconsiderata guerra della coppia Bush-Blair in larga misura all’origine della situazione attuale) sarebbe “no”, la ragione fa propendere per un “sì” condizionato e che faccia tesoro degli sbagli del passato.
Qui si invoca non già un assalto senza freni, ma il pronto soccorso. Un’operazione di polizia internazionale che scongiuri il consolidarsi di uno Stato fondamentalista, affianchi e rifonda coraggio alle truppe dell’esercito regolare in rotta, sia limitata nel tempo, abbia degli obiettivi chiari sin dall’inizio. E, una volta salvata la capitale, imponga all’attuale primo ministro di andarsene per costituire un governo di unità nazionale dove i sunniti abbiano la stessa dignità di sciiti e curdi. Certo ci vogliono gli Stati Uniti di un tentennante Barack Obama costretto a tornare sui suoi passi dopo il ritiro di tre anni fa che fu biglietto da visita del suo primo mandato. Non si tratta di rinnegare quella scelta, ma di porre rimedio agli errori del suo predecessore. Anche collaborando, come già succede, con l’Iran degli ayatollah che nella partita irachena ha gli stessi interessi almeno nell’immediato e pur se i suoi desideri egemonici per l’area segneranno una linea di collisione nella strategia di medio periodo. Tra Aleppo e Mosul, proprio come allora a Kabul, non è in gioco solo il destino di una regione cruciale e della sua popolazione: è in gioco la sicurezza dell’Occidente. Ecco perché ci riguarda da vicino.
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