Dall'Ucraina ai Cinque Stelle, ecco perché falliscono le 'nuove rivoluzioni'
Al di là delle differenze conclamante, dall'Ucraina alle primavere arabe, dall'Iran dell'onda verde ai proclami del pentastellati di Beppe Grillo si nota un elemento comune: l'aver confuso la capacità di aggregare una vasta comunità con quella, molto più complessa, di conquistare l'egemonia sull'intera società
Con Beppe Grillo fanno quattro. La storia recente ha messo in mostra quattro rivoluzioni rimaste incompiute: quella arancione in Ucraina (2004), l’onda verde degli studenti iraniani (2009) le primavere arabe (2011) e appunto il Movimento Cinque Stelle in Italia. È ovvio che differenze profonde separano questi processi, tra l’altro tuttora in corso. Ma pare indubbio che le aspettative e le speranze suscitate dal loro manifestarsi siano oggi abbastanza sopraffatte da dubbi e incertezze. Perché?
Partiamo dall’aspetto genetico che le accomuna. Un ambiente politico statico, dominato da élite tradizionali almeno apparentemente inamovibili. Era vero anche per l’Ucraina, uscita dalla fine del comunismo – come molti altri paesi dell’Est europeo e dell’ex Unione Sovietica – nel segno del riciclaggio, sotto nuove ma abbastanza mentite spoglie, della vecchia nomenclatura di partito.
Improvvisamente un moto di popolo, diretto da una minoranza composta da studenti e piccola borghesia urbana, rompe la continuità e manifesta un inaspettato protagonismo dinamico della società civile. Istintivamente il parallelo storico che subito si presenta agli occhi di molti è con il 1989 e con il crollo del muro di Berlino. Anche lì senza partiti e senza leader, una società civile che si credeva bollita da decenni di regime emerge a decretare la debolezza inaudita di quegli stessi regimi fino a maturare un pacifico ed epocale cambiamento.
È un modello di rivoluzione nuova rispetto a quelle del passato (americana, francese, bolscevica) tutte segnate dalla violenza e dal rovesciamento traumatico dei vecchi equilibri. Per questo il 1989 appare il punto di riferimento più vicino e plausibile. Ma con una novità importante: la rete telematica come sostituto degli antichi strumenti associativi di mobilitazione (partiti, sindacati, club, giornali …).
Si specula all’epoca, nei media occidentali, sull’esistenza o meno di società di marketing e comunicazione come soggetto occulto della rivoluzione arancione ucraina: tanto coordinato e scenografico, a fronte della prolungata assenza precedente, appare il moto sociale. Ma non se ne riescono a trovare conferme probanti. Anche se un indizio significativo è offerto dal prosieguo degli avvenimenti. La rivoluzione infatti non riesce a mettere in campo una classe dirigente davvero nuova: al suo posto emergono potentati economici cresciuti con la fine del comunismo (ad essi appartiene Julia Timoschenko) e la carica di rinnovamento si smarrisce. Il nuovo stato non riesce davvero ad essere inclusivo e democratico: molto presto rimane vittima del tradizionale scontro con la minoranza filorussa. Il vecchio afferra e schiaccia il nuovo.
In Iran la dinamica è ancora più evidente. Anche qui sono i figli acculturati della borghesia urbana (i paesi di cui parliamo hanno tutti popolazioni molto più giovani della nostra e in via di accelerato accesso all’istruzione superiore) a sfidare la teocrazia. I social media come Facebook assurgono per la prima volta a protagonisti, funzionando da collegamento organizzativo e palcoscenico comunicativo globale del movimento. Anche qui un colore (il verde) diventa l’elemento centrale di riconoscimento. Ma, a differenza del caso ucraino, il potere reagisce con forza ottusa e brutale, senza remore. E la repressione funziona. Il movimento si ritira e le elezioni (ri)scoprono una maggioranza radicalmente diversa, fatta di popolazioni rurali per le quali l’Islam rappresenta l’unico fattore identitario e coesivo. I giovani delle città si scoprono minoranza.
Più o meno è la stessa dinamica a manifestarsi due anni più tardi nei paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo. Qui lo scontro è con regimi laici e spesso militari, viziati da nepotismo e corruzione. La crisi economica (che qui è diversa dalle convulsioni finanziarie e bancarie dell’Occidente e si manifesta soprattutto sotto forma di rincaro dei prezzi di generi di prima necessità) mette a nudo l’incapacità di quei regimi a garantire non solo democrazia ma anche benessere ai propri popoli. Eppure anche qui la minoranza borghese urbana, colta e secolarizzata, non riesce a collegarsi con le campagne rimaste legate alla religione tradizionale: i Fratelli Musulmani vincono le elezioni in Egitto, le bande militari prendono il sopravvento in Libia e Siria senza preoccuparsi di trovare alternative unitarie ai vecchi regimi perché prosperano sulla guerra e sull’estrazione violenta di risorse per sopravvivere dalle popolazioni civili ostaggio del loro terrorismo militare (fenomeno per niente nuovo e anzi endemico in gran parte dell’Africa). Gli studenti ammutoliscono e tornano a casa sconfitti.
Il caso italiano c’entra come il cavolo a merenda. Parliamo di una democrazia e di un movimento politico che conquista una strana maggioranza (relativa e paritetica con le altre formazioni tradizionali di destra e sinistra) nascendo però quasi dal nulla, osteggiando i media «normali» e contando su Internet come strumento di una nuova democrazia fatta di partecipazione e consultazione diretta e quotidiana. Conta il malcontento contro la vecchia «casta», naturalmente. Ma la novità della rete e la somiglianza dello strato sociale di riferimento (giovane, urbano, colto) collegano Grillo alle altre rivoluzioni precedenti, apparentemente così lontane. Forse è ancora presto per parlare di rivoluzione interrotta o sconfitta. Però pare indubbia la sensazione di ripiegamento, direttamente proporzionale ai proclami di cambiamento radicale e repentino urlati dal leader del movimento.
Uno dei punti di collegamento tra queste esperienze così lontane tra loro è la comunità creata dalla Rete. Internet è un mezzo fantastico per ritrovarsi tra simili (ambientalisti o appassionati della pesca alla mosca che siano) e godere dell’illusione che quello sia tutto il mondo. In qualche modo la stessa cosa è avvenuta ai ragazzi ucraini, iraniani, egiziani e libici. E anche ai Cinque Stelle.
Il problema è che la politica è un’altra cosa. «It’s the politics, stupid» verrebbe da dire, imitando il vecchio Humphrey Bogart. I nostri ragazzi si scontrano con la dura realtà di una parola scritta ormai tanti anni fa in galera da Antonio Gramsci: egemonia. Senza costruire alleanze, senza conquistare il consenso attivo della maggioranza, senza un programma semplice e chiaro, capace di convincere, nessuna rivoluzione riesce a vincere. Gramsci pensava che questa verità riguardasse solo le società occidentali, complesse e modernizzate, con tanti luoghi di esercizio del potere. Magari la Russia dello zar poteva essere conquistata prendendo solo il Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo. Oggi forse scopriamo che invece questa vecchia e dura verità vale dappertutto.