
Sono decisioni fondamentali che riguardano la nostra identità e la posizione strategica del nostro Paese. Ciò nonostante, Cameron le presenta come se fossero invece scelte del tutto casuali, basate semplicemente su calcoli economici (lo scozzese medio starebbe leggermente meglio o leggermente peggio dal punto di vista finanziario qualora la Scozia diventasse un Paese autonomo? I posti di lavoro e i redditi britannici sarebbero colpiti negativamente o sarebbero avvantaggiati se lasciassimo l’Ue?), o su questioni transitorie come la scelta del presidente della Commissione europea per i prossimi quattro anni, e se in quel breve lasso di tempo agevolerà o intralcerà il processo di riforma dell’intera Ue.
Questo prendere le cose con apparente nonchalance è una vera sorpresa, soprattutto se si tiene conto che all’inizio del suo mandato Cameron aveva affrontato le cose con spavalderia. Nel maggio 2010, dopo quello che per lui e il suo partito era stato un risultato elettorale deludente alle elezioni generali, ci voleva un leader sicuro di sé per formare il primo governo di coalizione dal 1945, e per continuare poi con una serie di iniziative politiche a prima vista veloci. La sua visione di riforma del welfare o della pubblica istruzione, dei tagli alla spesa pubblica o lo slogan sulla “big society” poteva piacere o non piacere, ma una cosa era certa: la sua agenda era chiara, perfino radicale. Cameron sembrava un leader, e agiva in tutto e per tutto in quanto tale. Invece, quello è stato l’apogeo della sua chiarezza e della sua leadership.
Da allora è calata la nebbia. Le sue iniziative radicali si sono incagliate. Al momento nessuno, neppure nel suo stesso governo, è in grado di definire realmente un progetto politica che possa definirsi “cameronismo”, e che possa reggere il confronto con il “thatcherismo” o addirittura con il “blairismo”. Eppure, è proprio in questa nebbia che gli elettori britannici saranno chiamati a esprimersi in due referendum che potrebbero cambiare il Paese per sempre.
In teoria, questi referendum potrebbero essere considerati essi stessi spavaldi e visionari: offriranno all’elettorato la possibilità di decidere su questioni di fondamentale importanza costituzionale, di per sé già un’innovazione risolutiva in un Paese la cui Costituzione negli ultimi tre secoli è stata in buona parte decretata solo dal Parlamento. Nonostante tutto, però, mentre si avvicina il referendum sulla Scozia fissato per il 18 settembre, e in attesa dell’eventuale referendum sull’appartenenza all’Ue nel 2017, non c’è traccia in Cameron di una visione chiara. Le decisioni di indire i referendum sembrano adesso quasi quelle di un giocatore d’azzardo al casinò, scommesse fatte sotto una pressione politica a breve termine, senza una reale riflessione approfondita sulle possibili conseguenze.
Nel caso della Scozia, Cameron si è sentito messo sotto pressione dal successo nelle regionali del Partito nazionale scozzese filo-indipendentista. Nel caso dell’Ue, si è sentito messo sotto pressione prima da una cinquantina dei suoi colleghi conservatori in Parlamento, e adesso dall’ascesa nelle elezioni locali ed europee dell’Ukip di Nigel Farage. Cameron può aver pensato in entrambi i casi che il modo migliore per porre fine all’eterno dibattito sull’indipendenza della Scozia e sull’Europa era un referendum. In effetti, in caso di vittoria potrebbe anche riuscire a mettere a tacere le discussioni su queste questioni per una generazione o due. Ma che cosa accadrebbe se perdesse?
A leggere i sondaggi, la mia domanda potrà sembrare strana. Negli ultimi, soltanto il 35 per cento dell’elettorato scozzese si è detto favorevole all’indipendenza, mentre il 55 per cento circa ha risposto che voterà per restare nel Regno Unito. Allo stesso modo, anche gli ultimi sondaggi relativi al referendum sull’Ue lasciano intendere che oltre la metà dei britannici è intenzionata a continuare a farne parte. Eppure in entrambi i casi c’è una consistente percentuale di elettori che si dichiara indecisa. In ambedue i referendum, in definitiva, a influire in modo determinante potrebbe dunque essere l’impulsività più che il calcolo, il che significa che il risultato può essere imprevedibile.
I referendum sono meccanismi pericolosi. Lo sono, a maggior ragione, in un Paese che non ha una Costituzione vera e propria. Di conseguenza non abbiamo regole costituzionali precise riguardo al tipo di maggioranza richiesta o di quanti elettori debbano prendere parte al referendum perché questo sia ritenuto valido. In entrambi i casi una semplice maggioranza di voti si rivelerà decisiva. Il destino del Regno Unito potrebbe di conseguenza essere deciso da una manciata di schede.
Tutto ciò suona piacevolmente democratico. Prendere decisioni importanti a lungo termine in modo così fortuito, in realtà, è davvero inquietante. Chi crede, forse in linea con il Movimento Cinque Stelle, che le decisioni politiche in futuro debbano essere prese con una serie di referendum online, farebbe bene a riflettere a fondo su questa faccenda. Si potrebbero prestare a questa specie di votazione le decisioni che è possibile modificare prontamente, dopo ulteriore riflessione o dibattito. Ma non altrettanto accade per le questioni a lungo termine, di importanza strategica o costituzionale. Esporre tali questioni all’impulsività dell’elettorato è da irresponsabili.
Quali sono dunque le vere questioni in gioco? In entrambi i casi, non si parla di calcoli economici. Tali calcoli è verosimile che siano errati, e a ogni buon conto dipendono da una molteplicità di fattori che continueranno a cambiare nel corso dei prossimi decenni. Le vere questioni in gioco dietro l’indipendenza della Scozia e l’appartenenza all’Ue della Gran Bretagna sono altre e riguardano l’identità nazionale e il posizionamento strategico.
Con identità nazionale mi riferisco alla questione di capire se per essere veramente “scozzesi” sia indispensabile fare a meno della “britannicità”. O se, al contrario, nel XXI secolo si possa avere e apprezzare un’identità stratiforme, ed essere quindi scozzesi, britannici ed europei, tutto in uno. La spinta all’indipendenza della Scozia, proprio come quella della Catalogna, dipende da un’idea identitaria elitaria e abbastanza tribale, e non dalla percezione di poter essere stratiformi. Analogamente, Nigel Farage con il suo piccolo UK Independence Party vuole che la nostra identità sia definita dalla nostra capacità di governarci senza condividere la sovranità con altri e dalla nostra capacità di tenere alla larga gli immigrati. La Gran Bretagna che Farage ha in mente non può essere a uno stesso tempo britannica ed europea. Egli vuole che scegliamo: o l’una o l’altra.
Quando parlo di posizionamento strategico mi riferisco al fatto che la scelta della Scozia di restare nel Regno Unito o uscirne, e che la scelta britannica di restare nell’Ue o uscirne, deve essere una scelta sul tipo di autorevolezza che vogliamo a lungo termine per il nostro Paese, a fronte di un futuro inevitabilmente incerto. Il vero problema, in entrambi i casi, non è tanto come ci sentiremo il 19 settembre, all’indomani del referendum sulla Scozia, o il giorno dopo il nostro voto sull’appartenenza all’Ue.
Dovrebbe starci maggiormente a cuore, invece, come ci sentiremo più avanti, nel 2030 o nel 2050, quando nel mondo accadrà qualcosa di nuovo e imprevisto. A quel punto vorremo ritrovarci come il Canada, soli ma auspicabilmente ricchi, strettamente integrati con i nostri vicini più vicini e nondimeno ancora indipendenti da loro dal punto di vista politico? O preferiremo forse far parte di qualcosa di più grande di un Paese - il Regno Unito e l’Unione europea - nella consapevolezza che facendo parte di una realtà più grande saremmo più forti e avremmo un numero maggiore di frecce al nostro arco, anche se ciò significherebbe essere un po’ meno indipendenti? È proprio questa la domanda strategica che dovrebbe formulare un leader britannico realmente visionario, un leader come Margaret Thatcher, per esempio.
Lei non avrebbe subordinato l’appartenenza della Gran Bretagna all’Ue alla nomina di Jean-Claude Juncker, o a specifici negoziati sui poteri e le politiche del Parlamento europeo. Anzi, a dirla tutta è assai improbabile che Margaret Thatcher sarebbe arrivata a sottoporre a referendum la decisione della Gran Bretagna di continuare a far parte dell’Ue, perché la sua diffidenza nei confronti dei referendum è notoria.
Oggi molte persone pensano a Margaret Thatcher come a un’anti-europea convinta e rammentano un discorso da lei pronunciato al College of Europe a Bruges che segnò l’inizio dell’euroscetticismo britannico. Ma non è così. Margaret Thatcher esplicitò la sua visione politica dell’Ue, è vero. Ma sostenne anche, con altrettanta chiarezza, la posizione strategica e a lungo termine che la Gran Bretagna doveva assumere nell’Ue. «Il nostro destino è in Europa, come parte integrante della Comunità», disse.
Se Cameron vincerà le elezioni del maggio 2015 e se manterrà la promessa di indire un referendum nel 2017 sull’appartenenza all’Ue, gli elettori britannici dovranno esprimersi in un referendum su questo: sono d’accordo su quel destino? Il loro voto non riguarderà posti di lavoro o regolamentazioni specifiche, e neppure i poteri del Parlamento europeo. Come disse Margaret Thatcher, il loro voto deciderà del loro destino.
Traduzione di Anna Bissanti