"Appena abbiamo sentito il colpo di artiglieria siamo andati sulla spiaggia. E con quello che abbiamo visto a malapena siamo riusciti a trattenere i conati". Il racconto di un cronista che sta seguendo il conflitto in Terra Santa

Il piccolo porto di Gaza è uno dei luoghi più pittoreschi della città. In questi giorni, le barche dei pescatori sono rimaste ormeggiate placide nel porticciolo, uniche testimoni, da parte marina, delle incursioni aree israeliane e del lancio di razzi da parte dei gruppi militanti palestinesi.

Una sottile lingua di terra parte della costa, proprio davanti ai quattro alberghi che ospitano la maggior parte dei giornalisti internazionali venuti a “coprire” l’ennesimo confronto militare.

Proprio su questo lembo di terra e blocchi di cemento, che mette al riparo le barche dalle mareggiate, ci sono un paio di baracche e un piccolo container utilizzato dai pescatori per aggiustare le reti e difendersi dal solleone.

Alle quattro e trenta circa, un colpo di artiglieria colpisce il porto. Io e due colleghi fotografi ci affacciamo immediatamente alla finestra. Il porto dista circa 200 metri dal nostro edificio. Poi un secondo colpo. Stiamo già correndo giù dalle scale, macchina fotografica in mano, provando a indossare il giubbotto antiproiettile in corsa.

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Il piccolo container è stato colpito. Un fumo denso e nero si alza in cielo. Intravediamo qualcuno che corre in riva al mare. Terza esplosione, questa volta sulla spiaggia. Una colonna di sabbia oscura il sole per una frazione di secondo. Continuiamo a correre mentre un’ambulanza a sirene spiegate ci sorpassa.

Già una decina di cameramen e fotografi sono sul posto. Sulla spiaggia si intravedono alcuni corpi. Il sole, il sudore negli occhi e le pulsazioni a mille, mi impediscono di vedere chiaro. Qualcuno urla in arabo “walad sghar! “sono bambini!”.

I piccoli corpi ripiegati su se stessi in posizioni inconsulte sono surreali e se non fosse per il rosso del sangue che s’impasta alla sabbia, sembrerebbero manichini. Due paramedici con la barella corrono verso il piccolo container, mentre altri raccolgono i resti sulla spiaggia. Accade tutto molto rapidamente.

Ci avviciniamo al container. Le lamiere ripiegate e ancora fumanti, sono accartocciate ed annerite. Un infermiere perlustra l’area. “Hada hada!” (qui qui!) urla. Ci avviciniamo. E’ difficile capire cosa guardare. Poi metto a fuoco. Il corpicino di un bambino, non più di dieci anni: bruciacchiato, nudo, martoriato. Reprimo un conato di vomito. Scatto un paio di foto.

I paramedici lo mettono sulla barella con cautela e si avviano verso l’ambulanza circondati da telecamere e macchine fotografiche. Confuso, guardo negli occhi alcuni colleghi. La bocca impastata e il volto livido. “They’re just fucking boys” sibila tra i denti, guardandomi fisso, un collega americano,: “Si” gli dico in italiano abbassando gli occhi “sono solo bambini”.

I quattro cuginetti Ahed Atef Bakr, Zakaria Ahed Bakr, 10 anni, Mohamed Ramez Bakr 9 e Ismail Mohamed Bakr 11, sono morti in una luminosa giornata di sole sotto il fuoco di una fregata militare israeliana. Pochi minuti prima, dicono alcuni testimoni, stavano giocando a calcio sulla spiaggia.