"Quest'uomo è più pericoloso di Bin Laden" Vita e stragi del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi

L’infanzia povera. Il calcio. La galera americana. La spietata conquista del potere. Il leader dell'Is ha lanciato una sfida non solo all'occidente ma anche al resto del mondo. In nome del Jihad globale

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«Ci vediamo a New York, ragazzi», disse Abu Bakr al-Baghdadi uscendo dal campo di prigionia di Camp Bucca. A raccontarlo è stato il colonnello americano Kenneth King, allora comandante di quel carcere nel sud dell’Iraq e oggi forse l’unico occidentale che può dire di aver conosciuto il leader del gruppo jihadista Stato Islamico (Is), diventato in pochi mesi l’uomo più pericoloso del mondo. Ma chi è il nuovo Bin Laden, l’uomo che, dopo aver rottamato i vecchi vertici di al Qaeda, vuole creare uno Stato islamico dalla Siria all’Iraq e da lì lanciare la sfida del jihad globale?

«Baghdadi è molto peggio di Bin Laden, è più malvagio e sanguinario», dice da Washington il professor Paul Sullivan, esperto di Medio Oriente della Georgetown University: «Quanto a ricchezza e profondità strategica, l’Is supera al Qaeda, che non ha mai controllato pozzi di petrolio e gas, dighe, centrali elettriche, fabbriche o banche».

Di Abu Bakr al-Baghdadi sanno poco anche la Cia e le autorità irachene, perché in questi ultimi anni è stato bravo a mantenere il mistero su di sé. Il suo vero nome è Ibrahim Awad Ibrahim al-Badri. Nasce 43 anni fa da una famiglia povera in un villaggio vicino Samarra, a nord di Baghdad. A inizio anni Novanta arriva nella capitale e per dieci anni vive in una stanza adiacente ad una piccola moschea nel quartiere periferico di Tobchi.
Qui il futuro tagliagole rimane nella memoria per una caratteristica. «Era il nostro Messi, era il migliore», ha raccontato al “Telegraph” un uomo del quartiere, che a quel tempo giocava insieme a lui nella squadra della moschea, con cui andavano anche a nuotare e a fare dei picnic. Sfidando il cliché, lo ricorda come un uomo gentile e timido, e contraddice la storia secondo cui Baghdadi fosse un imam: in realtà, sostiene, era uno dei ragazzi che dava una mano in moschea quando l’imam era via, guidava la preghiera con la sua bella voce, ma non faceva sermoni. Era già un conservatore, ma il massimo per cui si fece notare fu, un giorno, protestare alla vista di una festa di matrimonio in cui uomini e donne ballavano insieme.

All’inizio del millennio, preso il dottorato in studi islamici all’università della capitale, Baghdadi si sposa, e ha un bambino. Nel 2003 inizia l’invasione americana, ma lui continua a vivere come un “family man”. Che cosa succede a questo punto? Nel caos della guerra, Baghdadi crea l’Esercito dei Sunniti, lo Jjasj, al cui interno si ritaglia il ruolo di capo del comitato per la sharia. Qui si scontrano due ricostruzioni diverse. Secondo alcuni stringe amicizia con Abu Musab al-Zarqawi, leader di al Qaeda in Iraq, al punto che per Bruce Riedel, ex Cia, Baghdadi lo seguirebbe anche in Afghanistan. Secondo altri analisti, invece, i due non sarebbero stati molto vicini, e Baghdadi non avrebbe mai messo piede in territorio talebano.

Nel febbraio del 2004, comunque, durante un raid in una casa vicino Falluja, viene arrestato dalle forze americane. Non sanno chi sia, ma lo rinchiudono nel loro centro di detenzione di Camp Bucca. Ancora due versioni contrastanti. Alcuni sostengono infatti che venne rilasciato dopo pochi mesi e con lo pseudonimo di Abu Duaa tornò al suo ruolo nello Jjasj, che nel 2006 insieme ad al Qaeda in Iraq si fuse nel più ampio Mujahideen Shura Council. Altri, invece, ritengono che sarebbe entrato a Camp Bucca nel 2005 e ne sarebbe uscito solo nel 2009.

Comunque sia andata, di certo gli americani non si accorgono che il carcere lo ha reso ancora più radicale. «Era un criminale di strada», ha spiegato un funzionario del Pentagono al “New York Times”, «serviva la sfera di cristallo per capire che sarebbe diventato il capo dell’Isis». «Era un brutto tipo, ma non era il peggio del peggio», ha raccontato il colonnello King, ricordando che Baghdadi non era stato nemmeno assegnato al Compound 14, quello riservato ai più estremisti.

È a questo punto che Baghdadi, mentre sta per salire su un cargo C-17 diretto a un carcere più vicino alla capitale, dice: «Ci vediamo a New York, ragazzi». King lo considerò poco più di uno scherzo, giocato sulla provenienza delle guardie di Camp Bucca. Ma oggi quella frase suona assai macabra.

Tornato in libertà, Baghdadi rientra nei ranghi jihadisti. Al-Zarqawi, il leader di al Qaeda in Iraq, è stato ucciso da un attacco aereo americano nel 2006. Nel 2010 il suo successore, a capo di quello che ora si chiama Isi, Stato islamico dell’Iraq, fa la stessa fine.

È a questo punto che arriva il momento di Baghdadi. Il 16 maggio 2010 viene eletto a capo dell’Isi. «È ancora un mistero perché abbiano scelto proprio lui, ce ne erano molti altri che erano nell’organizzazione da più tempo», ha raccontato Hisham al Hashimi, un esperto di sicurezza iracheno: «Venne eletto in Iraq, nella provincia di Ninive, da un consiglio religioso. Nove su undici votarono per lui». Il leader tribale iracheno Ahmed al-Dabash, che nel 2003 combatté contro gli Stati Uniti e ora è alleato dell’Is, ricorda: «Conoscevo di persona tutti i leader della rivolta anti-americana. Zarqawi era per me più di un fratello. Ma non avevo mai sentito parlare di Baghdadi. Era un personaggio insignificante allora. Guidava la preghiera in una moschea, e nessuno se ne curava».
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Nell’ottobre del 2011, gli attacchi terroristici da lui organizzati in Iraq gli valgono una taglia di 10 milioni di dollari da parte degli Usa, seconda solo a quella del leader di al Qaeda Ayman al-Zawahiri. Nel 2012 profetizza la nascita dello Stato Islamico nel suo primo audiomessaggio, e soprattutto ha una grande intuizione. Si introduce come una lama nel caos siriano, nel conflitto che oppone l’esercito del dittatore Bashar al-Assad e un’opposizione troppo variegata, in cui convivono i qaedisti di Jabhat al-Nusra e formazioni moderate che però non ricevono abbastanza sostegno dall’Occidente. Nel 2013 l’Isi occupa la città settentrionale di Raqqa, che diventa la sua “capitale”, e da lì scende verso Deir el-Zor, dove si impadronisce dei campi di petrolio. È un’avanzata trionfale, che nel 2013 lo porta a cambiare il nome del gruppo in Isis (o Isil, dove l’ultima lettera sta per Siria o Levante), a segnalare un’ambizione nuova, fare piazza pulita degli Stati creati dagli occidentali con gli accordi di Sykes-Picot nel 1916 e dare origine a uno Stato islamico che vada dalla Siria all’Iraq, riportando in mani sunnite e fondamentaliste due Paesi governati da due sciiti: il dittatore alawita Assad e il premier Nouri al-Maliki.

L’idea di espandersi in Siria, pestando i piedi ai qaedisti locali, non va per niente giù a Zawahiri, che infatti condanna la fusione tra Isis e la siriana al Nusra, voluta da Baghdadi nel 2013 e poi tornata in discussione. Lo scontro con Zawahiri è da antologia, con l’anziano ex braccio destro di Bin Laden che lo accusa di non portare rispetto e lo invita all’obbedienza, e il rampante iracheno che gli ribatte che è lui che deve portargli rispetto. «Devo scegliere tra la legge di Dio e quella di Zawahiri, e scelgo la legge di Dio», archivia la pratica Baghdadi. Forte dei successi e dei proventi del petrolio siriano torna in Iraq, dove, dopo il ritiro americano del 2011, le violenze tra sunniti e sciiti sono ricominciate. Conquista il confine con la Siria, e poi Falluja e Ramadi. Nel giugno scorso è il turno di Mosul, la seconda città del Paese, e di Tikrit, dove è nato Saddam. Sembrerebbe puntare alla capitale, e invece il suo esercito vira verso il Kurdistan, l’unica area dove in questi anni si sia creata in Iraq una società dignitosa. Al Baghdadi vuole Kirkuk e i suoi ricchi campi: “follow the oil”, segui il petrolio.

Il 29 giugno l’Isis cambia nome in Is, Stato Islamico. Baghdadi annuncia la nascita del Califfato, che sarà lui stesso a comandare, con il nome di Califfo Ibrahim. È una mossa spericolata, con cui, incurante del parere dei giuristi ma forte della sua auto-proclamata discendenza dalla tribù Quraysh, quella del Profeta Maometto, si pone come guida dei musulmani tutti. «È un insulto all’Islam, come se la ‘ndrangheta si facesse chiamare “Stato cattolico”», ci spiega Sullivan: «L’Is è una mafia. Sono dei killer, contrabbandano droga, persone, armi, carburante. Ma almeno le mafie hanno il buon senso di non considerarsi organizzazioni religiose».

Il 5 luglio Baghdadi decide che è tempo di uscire allo scoperto, perché d’altronde l’ultima sua immagine nota risaliva a quattro anni prima. Fa registrare un suo sermone nella Grande Moschea di al-Nuri a Mosul. Il video viene subito caricato su YouTube, e così il suo volto fa il giro del mondo. Il resto sono immagini di questi giorni. Epiche traversate del deserto di profughi per sfuggire alla furia jihadista. Stupri. Uomini sepolti vivi. Soldati sciiti di Tikrit ammucchiati per terra in una cunetta e fucilati, uno dopo l’altro, faccia a terra. Cristiani cacciati da Mosul. Minoranza yazida intrappolata sulle montagne del nord dell’Iraq. Combattenti curdi che, aiutati dagli americani, guidano la controffensiva e riconquistano la strategica diga di Mosul.
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Che cos’altro si può dire del Califfo? È un pazzo? No. Anzitutto ha un piano. Di solito i qaedisti non sanno governare a lungo un territorio vasto, perché l’imposizione della sharia e di costumi severi sono impopolari. È vero, a Raqqa la “giustizia” di Baghdadi prevede il bando totale di alcol e sigarette, la sottomissione della donna, punizioni corporali e capitali, crocifissioni e preghiere obbligatorie. Tuttavia Baghdadi non sta sottovalutando lo “state-building”, o almeno il tentativo di creare una nuova società: a Mosul ha organizzato delle feste per i bambini, ha distribuito cibo e regali, ha aperto scuole e inaugurato servizi di bus. A Raqqa ha creato una burocrazia e concesso sconti per cibo e carburante. Il bastone e la carota, insomma, almeno per i musulmani sunniti fedeli.

Si è poi impadronito di risorse energetiche cruciali, la cui gestione gli permette di tenere sotto controllo anche quella parte di popolazione che non lo sopporta. Soprattutto, a differenza del giordano Zarqawi, non si è circondato solo di stranieri. Per conquistare l’Iraq si è affidato a una cricca di ex militari ed ex funzionari del partito Baath, insomma di nostalgici di Saddam Hussein, gente che conosce il Paese da un punto di vista sociale e militare. Baghdadi ha saputo cavalcare il profondo risentimento dei sunniti, emarginati prima dal governo provvisorio installato dagli americani e poi dallo sciita al-Maliki.

Rispetto a Bin Laden, con cui ha in comune la passione per il calcio (Osama era un tifoso dell’Arsenal), ha tenuto finora un profilo più basso. Si è fatto vedere poco e non ha concesso interviste. «Le differenze? Prima di tutto rispondono a due mitologie diverse, perché se Osama era il ricco che si è spogliato di tutto, Baghdadi è l’uomo venuto dal nulla. Poi Osama è stato il primo leader del jihad globale, e il suo carisma è inarrivabile», ci spiega da Pechino l’inglese Raffaello Pantucci, esperto di sicurezza globale del Royal United Services Institute di Londra.

Sì, Baghdadi non avrà il carisma di Osama, ma non è un laico come lui e Zawahiri, rispettivamente un ingegnere e un medico: è uno studioso dell’Islam e un religioso, e questo può affascinare molti fanatici jihadisti. E a differenza del vecchio Zawahiri, che se ne sta in una grotta e non ha mai conquistato da solo un territorio, è pure un uomo d’azione. Ora sogna di prendere Iraq e Siria e da lì, anche grazie alla sua straordinaria macchina comunicativa, lanciare il jihad globale. In un audiomessaggio registrato alla fine di giugno ha citato tutti i luoghi del mondo in cui i musulmani devono ricorrere al terrore, dalla Cina all’India, dalla Somalia al Caucaso fino alle Filippine. «Sollevate le vostre ambizioni!», ha esclamato, stabilendo i confini del suo Stato Islamico ideale: fino alla Spagna e a Roma. Le sue parole hanno rovinato le vacanze a molti governanti, visto che sul web, dal Bangladesh a Washington, si moltiplicano le professioni di fede nell’Is, e perfino il regime cinese, preoccupato da possibili infiltrazioni nello Xinjiang, comincia a temerli, tanto più che Pechino è il primo cliente del petrolio iracheno.

Il suo esercito si è gonfiato vittoria dopo vittoria, come una valanga. Ma quelle tribù sunnite che finora lo hanno sostenuto si stancheranno di lui? Ahmed al-Dabash, il leader tribale, ha fatto capire di sì, se la musica cambierà a Baghdad, dove intanto il disastroso premier al-Maliki si è finalmente dimesso, dopo otto anni al comando.

Il nuovo Califfo globale ha già dato appuntamento a Roma e a New York. Prima però deve fare la marcia su Baghdad. E non sarà una passeggiata. «L’Is non riuscirà a conquistarla. Non è una città sunnita come Mosul, è una metropoli etnicamente divisa, dove gli sciiti venderebbero cara la pelle», dice Pantucci. Conclude Sullivan: «Uomini di diverse religioni e di diversi Paesi devono mettersi insieme per fermarlo. È una battaglia che riguarda tutti, siamo tutti in prima linea».

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