Con Charlie Hebdo è tornata la Francia Il Paese si è risvegliato dopo la strage

Le parole del fratello dell’agente musulmano ?ucciso, la preghiera degli ebrei, il grande corteo: tre momenti che hanno restituito al Paese ?il senso dei valori dimenticati della Rivoluzione e sono ?il vero antidoto al fanatismo. ?A patto che duri...

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La percentuale è infima. All’indomani della carneficina di Charlie, sono stati appena 70 su 64mila gli istituti scolastici francesi nei quali gli alunni si sono rifiutati di osservare un minuto di silenzio come in tutto il Paese. Settanta istituti nei quali si sono sentiti i ragazzini dire che quei vignettisti avevano insultato il Profeta e, al tempo stesso, avevano insultato anche loro e tutti i musulmani. Settanta scuole di troppo, ma pur sempre una su mille. Non è un allarme da codice rosso. Anche se…

La ministra dell’Istruzione Najat Vallaud-Belkacem, lei stessa di origini magrebine, ha preso la faccenda così sul serio da convocare immediatamente le associazioni dei genitori e i sindacati degli insegnanti. La stampa si interroga. Si consultano gli islamologi e gli educatori delle banlieue. Tutte le testimonianze concordano.

Al di là dei 70 episodi negativi, si percepisce del malessere, e c’è motivo di preoccupazione perché di che cosa parlano professori e alunni figli di musulmani nei cortili durante la ricreazione, all’uscita da scuola, nei cambi d’ora, soprattutto? Non si è sentito, se non assai di rado, approvare l’operato degli assassini, né fare parola di quelle apologie del terrorismo di cui si legge sui social network. Si sono sentite formulare domande vere, fondate o infondate ma in ogni caso sincere, che esigevano una risposta.
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«Perché», hanno domandato i ragazzini, «la polizia può controllarci di continuo senza che ciò scateni la stessa indignazione nazionale? Perché Dieudonné (il comico antisemita arrestato mercoledì 14 gennaio per apologia di terrorismo: ha scritto su Facebook di sentirsi “Charlie- Coulibaly”, unendo i nomi di vittime e un carnefice) non ha il diritto di prendere il giro gli ebrei, mentre Charlie può deridere i musulmani? Perché si fa molta più fatica a trovare un lavoro se ci si chiama Rachid o Latifa invece che Pierre o Catherine? Perché, insomma, nella società francese ci sono due pesi e due misure?».

La carneficina di Charlie e l’ondata di emozione che essa ha suscitato hanno reso queste domande quanto mai pungenti. Ma la cosa che colpisce di più, la cosa più incresciosa, è lo sgomento degli insegnanti che le hanno rilanciate al Paese, alle radio o nei giornali. Gli insegnanti, infatti, hanno scoperto che i loro alunni (e non soltanto gli alunni musulmani) ignorano che cosa sia la laicità: i figli di immigrati ignorano che purtroppo in ogni epoca e a ogni latitudine respingere l’altro è una costante. Ignorano che in Francia ci sono volute molte generazioni prima che gli immigrati polacchi e italiani si sentissero accettati.

Non soltanto troppi insegnanti hanno appena scoperto l’ignoranza civica e storica degli alunni che si supponeva dovessero educare, ma per di più se si chiede loro che cosa hanno risposto alle domande formulate da questi ragazzini si sentono borbottii sconfortanti.
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In troppi casi non hanno saputo rispondere. Non hanno saputo dire a questi adolescenti che i controlli continui sono ovviamente ingiusti e che tuttavia i traffici nelle banlieue sono una realtà, di cui loro sono i primi a soffrire. Non hanno saputo dire che Dieudonné istiga all’odio nei confronti degli ebrei, mentre Charlie denuncia il fanatismo, tutti i fanatismi, e non solo quello musulmano. Non hanno saputo dire, soprattutto, che sì, è vero, i figli di immigrati fanno più fatica degli altri a farsi assumere, ma nel loro caso la paura suscitata dal caos dell’Islam e dalla sanguinaria follia dei jihadisti nuoce loro molto più del banale ed esecrabile razzismo.

Tutte queste cose, naturalmente, sono difficili da esprimere. Occorre un grande distacco per spiegarle e ancor più per comprenderle. Soltanto adesso in Francia ci si inizia a rendere conto della portata di un disagio, di un disagio drammatico per porre rimedio al quale occorreranno molto tempo, molta intelligenza e molta generosità. Ma la situazione è tragica?
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Dei dodici milioni di immigrati e di discendenti diretti che si contano in Francia, la metà è musulmana. O, per meglio dire, è di origini musulmane, tenuto conto che molti di loro, come tutti i francesi, hanno rapporti assai freddi o inesistenti con la religione. In sintesi, potremmo dire che in Francia ci sono sei milioni di musulmani, corrispondenti più o meno al 9 per cento della popolazione: quanti di loro sono a tal punto affascinati dal jihadismo da partire per il Medio Oriente a combattere sotto la sua bandiera?

Mille e trecento o mille e cinquecento, ovvero uno su quattromila. Un’abbondante metà di loro è rientrata in Francia atterrita da ciò a cui ha assistito. Restano quindi al massimo 700 persone che costituiscono un vero pericolo. Si devono temere altri attentati. Di sicuro questa minaccia non deve essere sottovalutata, ma – per quanto temibile ciò sia – questa è soltanto una parte della realtà.
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Gli imam e le associazioni musulmane di Francia non avevano mai condannato così esplicitamente il jihadismo come hanno fatto dopo la carneficina di Charlie. “Le Monde” ha pubblicato una pagina intera piena di firme e nomi arabi che si schierano contro il fanatismo. Tra i milioni di manifestanti dell’ultimo fine-settimana c’erano molti musulmani, africani e arabi, e in questi giorni di tragedia e di bellezza ci sono stati tre momenti particolari, più belli degli altri.

Il primo è stato questa dichiarazione del fratello di Ahmed Merabet, il poliziotto giustiziato con una pallottola nella nuca davanti alla redazione di Charlie. Grosso, ben piazzato, con un fisico da attore hollywoodiano, ha esordito con questa frase: «Francese di origine algerina e di religione musulmana, mio fratello era molto orgoglioso di chiamarsi Ahmed Merabet, di rappresentare la polizia francese e di difendere i valori della Repubblica, “liberté, égalité, fraternité”». A questo punto i singhiozzi gli hanno incrinato la voce. Ripresosi, ha così continuato: «Mi rivolgo a tutti i razzisti, gli islamofobi e gli antisemiti: non si devono confondere estremisti e musulmani. I pazzi non hanno colore né religione. Ahmed era un figlio protettivo, un fratello buontempone, uno zio che viziava i nipoti, un compagno amorevole…».

Ahmed, ha proseguito suo fratello davanti alle telecamere, era un uomo come tutti gli altri, buono come un pezzo di pane. Non era un musulmano, ma un francese di religione musulmana. Francese fino al midollo e orgoglioso di esserlo. Ecco, in quel momento la Francia ha visto ciò di cui dubitano tante persone - un po’, molto o astiosamente - ossia che l’integrazione non si riassume nei casi non riusciti; che l’integrazione alla francese continua a creare la Francia; che i nuovi francesi, come sempre nella storia, sono spesso un po’ più francesi degli altri perché hanno voluto diventarlo ed è questa scelta a definirli.
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Non meno commovente, il secondo di questi tre momenti particolari è stato quando quello stesso sabato davanti al minimarket kosher nel quale il terzo assassino ha ucciso altre quattro persone si è riunita una folla di varie centinaia di ebrei di Francia. In mezzo a loro c’era il primo ministro, che ha preso la parola per dire che «senza gli ebrei, la Francia non sarebbe la Francia», e a quel punto tutti i presenti gli hanno risposto con quella splendida “preghiera per la Francia” che si recita nelle sinagoghe francesi tutti i sabati.

Le televisioni l’hanno trasmessa: “Signore Eterno, Maestro del mondo, guarda con benevolenza al nostro Paese, la Repubblica francese, e benedici il popolo francese. Che la Francia viva felice e prospera. Che possa essere grande e forte grazie all’unione e alla concordia (…) e conservi il suo status glorioso tra le nazioni…». Davanti alle telecamere l’ebraismo ha dichiarato tutto il suo amore per la Francia, una passione che risale ai tempi nei quali la Rivoluzione, la libertà, l’eguaglianza e la fraternità avevano strappato gli ebrei alla loro condizione di reietti per farne dei cittadini come tutti gli altri, uguali nei diritti e nei doveri.

Infine, il terzo di questi momenti belli è stato l’istante - seguito poi da molti altri - in cui domenica la folla ha iniziato ad applaudire la polizia. Non è frequente che capiti in una manifestazione francese, ma da mercoledì sera, dai primi assembramenti spontanei nelle piazze delle grandi città, la nazione si è alzata in piedi, si è riappropriata della sua bandiera e della sua Marsigliese, rispettivamente brandita e intonata come è giusto che avvenga per le insegne della Repubblica.

Questi tre momenti ne formano in realtà uno solo. Tutti hanno detto che la Francia, a lutto, derisa e irrisa, ha ritrovato sé stessa e si è raccolta attorno alla Repubblica e al suo motto. Perché è attorno alla Repubblica e alla sua laicità che la Francia è forte e unita. È attorno ai suoi valori - Liberté, Égalité, Fraternité - che la Francia ha potuto risollevarsi, con la sua dignità, la sua grandezza, e senza odio.

Più di ogni altra cosa, questi avvenimenti hanno fatto capire che, per noi francesi, i valori rivoluzionari erano le nostre armi migliori contro il terrorismo, e che a forza di considerarli acquisiti li avevamo dimenticati, e che è più che giunto il momento di insegnarli e ribadirne il significato e l’attualità, di continuo e ovunque.

Musulmani o altro, musulmani all’occorrenza, ciò di cui soffre l’immigrazione non è altro che quello di cui soffre oggi l’intera società francese (e così pure l’Europa), ovvero una mancanza di senso, di ideali nei quali credere, di sentimento di appartenenza a una nazione comune fondata su una comunità di valori. Alle poste e negli ospedali, nelle amministrazioni e nei servizi, nello sport e nel mondo dello spettacolo, la seconda generazione di immigrati ha trovato il proprio posto, e se lo tiene stretto. Molti spiccano per i loro talenti, al punto da comparire nell’elenco dei cinquanta francesi più amati dai francesi.

E dunque la Francia è a un bivio. Può scegliere, ancora una volta, di dimenticare il suo motto e di andare incontro alle medesime difficoltà che gli Stati Uniti incontrano con i loro ghetti neri. Ma può anche mantenere vivo lo slancio della settimana scorsa, quel fervore repubblicano che ben presto avrà trasformato i suoi musulmani in francesi di confessione musulmana. La Francia ha ritrovato la Marsigliese e il suo tricolore… A patto che duri.

traduzione di Anna Bissanti

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