Dopo un week end trascorso in un silenzio irreale sotto una specie di assedio, Bruxelles riprende faticosamente a funzionare. Le strade sono ancora piene di polizia, i blindati dei militari con tuta mimetica e mitragliatore sempre posizionati nei punti nevralgici della città, la metropolitana ancora chiusa, solo alcune linee di tram sono in funzione, e soltanto per alcuni tratti. Anche le scuole sono chiuse, dalle università agli asilo nido, quindi sia io che mio figlio di sei mesi ci ritroviamo senza un luogo dove andare questo lunedì mattina. Fa freddo, oltre alla massima allerta per attacchi terroristici la città è sotto una morsa di gelo, ma per lo meno c’è il sole che fa brillare di luce limpida i cieli del nord.
Decido di fare un giro al parco, dovrebbe essere un luogo abbastanza sicuro - non mi vengono in mente attentati in giardini pubblici - ma sulla porta incontriamo Fatma, la signora marocchina che ci aiuta con i lavori di casa. E’ trafelata e spaventata, mi racconta che per arrivare da noi ha fatto solo strade secondarie, aveva paura di camminare su quelle principali. Le chiedo se c’è gente in giro, e mi risponde che le strade sono quasi deserte, e i pochi che si incontrano si scambiano sguardi a metà fra il sospettoso e il solidale.
Le domando cosa pensa della situazione, sperando che da persona in contatto con la comunità musulmana possa aiutarmi a capire meglio cosa sta succedendo, ma sembra più confusa e spaventata di me. Mi dice che nel weekend né lei né suo figlio di sedici anni sono usciti di casa. “Abbiamo troppa paura” mi spiega “sia dei terroristi sia dei belgi, temiamo di essere minacciati o attaccati.”
Cerco di tranquillizzarla ma lei tira fuori il cellulare e mi mostra un video che le ha mandato sua cugina, in cui si vedono poliziotti francesi che maltrattano e offendono dei musulmani durante degli scontri. Mi dice anche di aver sequestrato lo smartphone a suo figlio perché dopo aver messo la bandiera francese come foto di profilo Facebook, il ragazzo aveva ricevuto messaggi minacciosi da alcuni suoi amici. Uno diceva: Quelli bruciano il Corano e tu difendi la loro bandiera? Fatma si calma dopo solo aver preso in braccio mio figlio, e mentre mi aiuta a vestirlo lui le stringe le braccia al collo, allora lei si commuove un po’ e mi dice “Lui sì che capisce”.
Questa piccola scena di tenerezza interculturale mi motiva a sfidare il freddo e la paura, e mi avvio fuori. Arrivato al parco vedo solo alcuni temerari che fanno jogging e qualche altro genitore che non ha potuto portare il figlio all’asilo. Il sole comincia a scaldare un po’, si sta bene, ci si potrebbe quasi rilassare e dimenticare del clima di paranoia degli ultimi giorni, se non fosse che ogni fruscio di cespuglio, ogni persona che sbuca da un sentiero, ogni rumore improvviso rimette in circolo la paura. Il bimbo dorme già nel passeggino ma io ho i nervi tesi.
Per distrarmi controllo la posta sul telefono, e mi salta all’occhio un email di Claudio, un altro expat italiano a Bruxelles e noto viveur, intitolato 'Uscite di casa!' Racconta di aver passato un weekend dei suoi, anzi forse ancora più intenso del solito, in spregio a tutti i messaggi allarmistici, e invita gli amici a fare lo stesso, per non cadere vittime di un enorme tranello teso dal governo. Conclude l’email con la sua particolare scala di pericolo misurata in birre belghe: livello 1 birra d’abbazia, livello 2 birra trappista, e così via. Che abbia ragione lui? In ogni caso, con un bambino piccolo neanche volendo avrei potuto fare come Claudio, e mi consolo pensando che la specie di coprifuoco calato sulla città - e che ha reso inaccessibili bar, sale concerti e cinema - io lo vivo da sei mesi.
Sulla strada per tornare a casa passiamo davanti a Place Van Meenen, la piazza del municipio di Saint Gilles, il nostro quartiere. Di solito il lunedì qui c’è un variopinto mercato che nel pomeriggio si anima con un aperitivo dei più noti in città, ma oggi la piazza ha le stesse sembianze di triste parcheggio di tutti gli altri giorni. Nessuna bancarella di prodotti biologici, nessuno stand di crepes bretoni, nessun camioncino carico di specialità italiane con cui sfogare la nostalgia di casa. Mi accorgo che la paura di prima sta scolorando in senso di smarrimento misto a tristezza, e per non farmi sopraffare decido di chiamare Andrea, un giornalista italiano freelance con base a Bruxelles. Anche lui, come Claudio, sopporta male il clima paranoico calato sulla città, ma per ragioni meno edonistiche.
“Gli attentatori di Charlie Hebdo hanno comprato le armi vicino alla Gare du Midi, qui a Bruxelles” mi dice con tono concitato “La stessa stazione da cui è partito l’uomo che voleva fare l’attacco al Thalys, che è salito sul treno con una specie di arsenale nella borsa. E non dimentichiamo che un anno fa è stato colpito il Museo Ebraico, in pieno centro storico. E la polizia dov’era? Adesso bloccano per due giorni la capitale d’Europa, e per chissà quanti ancora, solo per dare la caccia a un terrorista. Fermano venti persone, senza nemmeno trovare un’arma, e intanto alzano il livello di sicurezza al massimo, tanto per poter dire di aver fatto tutto il possibile”.
Gli faccio notare che forse qualche fondamento c’è nell’aver dichiarato la massima allerta, in fondo per il fuggitivo, e i suoi eventuali complici, c’è ancora una missione suicida da compiere. “E’ vero, ma sai cosa mi colpisce di questa storia? La risposta fortemente emotiva delle istituzioni, e anche dei cittadini. E’ indicativo che i cittadini di Bruxelles abbiano risposto così diligentemente alla richiesta delle forze di polizia di non divulgare informazioni sulle operazioni in corso nel weekend.
Addirittura la gente postava su twitter immagini di gattini, in una specie di ironica forma di solidarietà con la polizia. C’è un consenso inedito rispetto a quella che io considero una deriva securitaria. E’ come se si fosse aggiunto un ultimo, insostenibile elemento di insicurezza a gravare su una società, non solo quella belga, ma l’Europa in generale, già in crisi per le tensioni sociali ed economiche che hanno avuto come epicentro Bruxelles. Una società sull’orlo di una crisi di nervi”.
Dopo la telefonata non sono né più tranquillo né più sereno di prima, ma forse ho qualche elemento in più per capire la situazione convulsa che mi circonda. Prima di mettere via lo smartphone do un’occhiata al gruppo Facebook Italiani a Bruxelles per conoscere qualche sviluppo, e scopro che la polizia ha postato su Twitter l’immagine di una ciotola di crocchette per ringraziare i cittadini che hanno pubblicato immagini di gattini senza intralciare le indagini. Per il paese che ha dato i natali a grandi surrealisti, la giusta conclusione per un week end veramente surreale.
Gabriele Cosentino insegna comunicazione politica al Vesalius College di Bruxelles.
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Ritratto30.08.2024
A Bruxelles piove Fitto