La segregazione razziale è lontana, ma adesso sta crescendo un altro divario: quello tra benestanti e non. E si diffonde il timore che la transizione pacifica voluta da Mandela sia arrivata alla fine (Foto di Zed Nelson)

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«Con l'arrivo della democrazia, in Sudafrica non è cambiato granché per le masse. Il denaro continua a essere concentrato in troppe poche mani, non c’è stata una ridistribuzione della ricchezza. Quando vado al ristorante è raro che incontri dei neri».

Lance Cohen, agente immobiliare, è un bianco benestante di CapeTown. Spiando sul suo profilo Facebook, vediamo che negli ultimi mesi è stato a Londra, Saint Tropez e le Mauritius, luoghi in cui si è fatto fotografare sempre sportivo e ipersorridente, spesso con un bicchiere in mano, e in un caso anche a testa in giù sopra un tavolino in riva al mare: 38 amici hanno commentato la sua allegra acrobazia e non ce ne è nemmeno uno nero.

L’altro volto di Cape Town è invece Lizann Entelbear, 18 anni, nera. Vive insieme alla madre e alla sorellina. «A scuola non avevo ambizioni, il ricordo più bello è di quando cantavo nel coro. Mia madre mi chiedeva cosa volessi fare da grande e io non ne avevo idea», dice. Poi racconta di quella volta, una mattina presto, che un uomo legò un’amica di sua madre, la spogliò e la stuprò con una bottiglia. Lei morì, mentre l’assassino gironzola ancora nel quartiere, strafatto di droga. Oggi Lizann è disoccupata. In attesa che il capo di sua madre le trovi un posto come panettiera, da sei mesi guadagna dai 200 ai 300 rand, dai 14 ai 22 euro, per andare a letto con gli uomini.
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Lance e Lizann, due pianeti diversi. Certo sono esempi estremi, facili da contrapporre. Però, ad ascoltare racconti e analisi, questa sembra essere una fotografia non troppo infedele del Sudafrica di oggi. Dove i neri hanno conquistato i diritti civili, ma tra di loro il tasso di disoccupazione è al 39 per cento, mentre è all’8,3 quello dei bianchi, che guadagnano in media 5 volte di più e rappresentano il 70 per cento dei manager. Così il Sudafrica è oggi uno dei Paesi con più disuguaglianza nel mondo.

Mark Williams, da 27 anni insegnante della scuola elementare Macassar, di Cape Town, dice che i fondi per l’istruzione non sono cresciuti rispetto ai tempi dell’apartheid: «Qui abbiamo 28 docenti per 1.008 alunni. I bambini non sono seguiti dai genitori, insegniamo loro a lavarsi i denti e tirare lo sciacquone. Molti a casa non hanno un tavolo, vivono in una stanza in cui si fa tutto. Tante madri prendono il “tik”, una metanfetamina. Non ci sono aspirazioni, la gente dipende dai sussidi come prima. E non c’è ancora integrazione. I neri stanno a Lawndale e i bianchi a Somerset West. Non c’è più una legge che glielo imponga, ma è ancora così». L’apartheid insomma è finito nella forma, ma è ancora vivo nelle teste della popolazione.

Cape Town è l’unica grande metropoli in cui i bianchi non sono una minoranza, e tra le nove province la sua è l’unica ad essere governata dall’Alleanza Democratica, formazione creata dai bianchi anti-segregazionisti ma che ha attirato anche diversi esponenti del vecchio Partito Nazionale, pro-apartheid. Per molti neri, Cape Town rappresenta ancora l’ultimo bastione dell’ancien régime ed è il posto in cui è più evidente questo contrasto tra i bianchi - che come prima risiedono sicuri tra strade pulite e guardie private - e i neri, i più poveri dei quali vivono nelle baracche di Khayelitsha, ben lontani dalla Città del Capo più nota ai turisti.

Il partito dell’African National Congress (Anc), al potere ininterrottamente dal 1994, aveva promesso che avrebbe migliorato la vita di quell’80 per cento di neri che rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione. Non tutto è andato storto, certo. La proporzione di persone che vive con meno di un dollaro e sessanta al giorno è crollata dal 42,4 per cento del 2000 al 29,2 del 2011. È cresciuta l’aspettativa di vita, si è combattuto con forza l’Aids, il governo dice che si è raddoppiato il numero di universitari e sono state costruite quasi 4 milioni di case. «Però a beneficiare dalla politica del Black Economic Empowerment (privilegi per le razze non bianche, ndr) sono stati quelli più ammanicati con l’Anc, i più vicini al presidente Jacob Zuma», dice Lance Cohen.

Certo è che i bianchi stanno bene come prima. Però ora che se ne è andato Nelson Mandela, padre della riconciliazione nazionale, si guardano le spalle. L’incubo si chiama Zimbabwe, ovvero gli espropri ai bianchi decisi da Robert Mugabe. A cavalcare il malcontento dei disperati è anche qui, come spesso capita, un populista dalle idee radicali, la lingua affilata e un passato ricco di scandali, provocazioni e gaffe. Si chiama Julius Malema, ha 34 anni ed è l’ex presidente dei giovani dell’Anc, da cui è stato espulso nel 2012. Nel 2013 ha fondato gli Economic Freedom Fighters, ora terzo partito del Paese.

Malema sostiene che la strategia dell’Anc di ridare ai neri le terre tramite negoziati ha fallito, quindi bisogna passare agli espropri, come nello Zimbabwe. «Dobbiamo riprendercele senza pagare niente, perché è così che i bianchi ce le hanno sottratte. Sono dei criminali, e dobbiamo trattarli come tali», dice Malema. Anticapitalista, propone la nazionalizzazione delle miniere e delle banche e il raddoppio del salario minimo e dei sussidi del welfare: «Il gap tra ricchi e poveri sta aumentando. Gli unici neri che stanno emergendo sono quei pochi che sono stati spinti dall’Anc, un partito che governa per conto del capitale. In Sudafrica, anche se muori di fame ti dicono che comunque stai meglio rispetto al 1993, e la gente comincia a credere a questa bugia ripetuta in continuazione. Perché almeno allora non dovevi pagare per l’acqua e l’elettricità, mentre ora nuoti nei debiti e sei sempre disoccupato».

Le minacce di Malema hanno reso più cauti i bianchi nell’investire, ma hanno avuto il merito di smuovere il dibattito politico. L’incubo-Zimbabwe non si è però ancora realizzato. Il Sudafrica non solo ha effettuato la transizione in maniera pacifica e senza ritorsioni, ma dalla fine dell’apartheid ha organizzato cinque elezioni libere. Insomma, non si stava meglio quando si stava peggio.

Il processo a Oscar Pistorius, il campione paralimpico che ha ucciso la fidanzata, è stato un simbolo potente del Sudafrica di oggi. Da un lato ha ricordato a tutti il livello di violenza di questa società. Dall’altra, però, in un processo molto seguito dai media che ha esposto anche l’incompetenza della polizia, ha visto una donna nera, la giudice Thokozile Masipa, tenere testa e condannare un ricco uomo bianco, una scena impensabile prima del 1993.

Il discusso e potentissimo presidente Zuma è stato invece accusato di aver speso soldi pubblici, ben 16 milioni di euro, per “migliorare la sicurezza” della sua villa privata. Ma non l’ha fatta franca. È stato condannato. Anche in questo caso aveva di fronte una donna nera, l’avvocatessa Thuli Madonsela, che ha dimostrato come quelle spese fossero illegali - visto che includevano anche una piscina, una piccola clinica e un anfiteatro - e ha ordinato a Zuma di restituirne allo Stato una parte. «In Sudafrica gli abusi e la corruzione sono in aumento», dice Madonsela, «ma la nostra inchiesta dimostra che la democrazia funziona».

Molto c’è ancora da fare per il Sudafrica del post-apartheid, ma certo non più di quanto tocchi a grandi democrazie emergenti come Nigeria, Brasile o Messico. Ha detto una volta Mandela: «Dopo aver scalato una grande collina, si realizza che ci sono tante altre colline da scalare».