Era il suo lavoro prima di diventare soldato. Ritratto di Omar il ceceno, comandante dello Stato Islamico. Che in Siria si è preso Palmira

Un miliziano dell'Is
Di mio figlio non parlo più». Temur Batirashvili chiude la porta in fretta. Si rintana in casa. Non vuole parlare. «Non può farlo, il figlio glielo ha vietato», dice chi lo conosce bene. Siamo a Birkiani, paese di qualche centinaio di anime in una gola nascosta della Georgia.

Da Tbilisi, la capitale, la si raggiuge in un paio d’ore seguendo la strada che punta a nord-est, supera il passo di Gombori, oltrepassa la cittadina di Telavi, vira verso Akhmeta e finisce in questa valle lunga e stretta che confina con Cecenia e Dagestan, i Paesi più turbolenti del Caucaso. Che Temur sia riluttante a parlare è comprensibile: suo figlio Tarkhan è ricercato dall’intelligence di mezzo pianeta. Sulla sua testa il Tesoro americano ha messo una taglia di 5 milioni di dollari. È un jihadista, un guerrigliero spietato. Non uno qualsiasi. È il comandante delle forze armate dello Stato islamico in Siria ormai occupata per metà del territorio, compresa l’ultima preda, la città e il sito archeologico di Palmira. Si fa chiamare Abu Omar al Shishani. Per tutti, qui, è Omar il ceceno: il generale del califfo Abu Bakr al Baghdadi.

«Siamo ceceni anche noi, ma Omar non ci piace». Makvala Margoshvili è la memoria storica della valle. Abita a Duisi, il principale villaggio del Pankisi, in una bella casa a due piani circondata da un giardino dove scorrazzano galline, gatti e papere. «Sono nata qui, come i miei nonni. La nostra famiglia vive in questa valle da circa due secoli, ma la nostra vera patria è la Cecenia». La storia di questa donna è quella di un’intera comunità, i kisti. Musulmani sufi di origine cecena, a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento i kisti si sono trasferiti in Georgia. In un Paese cattolico ortodosso, sono una minoranza.

In Siria oggi combatte le minoranze etniche e religiose, a colpi di teste mozzate e intimidazioni, ma anche Tarkhan Batirashvili, Omar il ceceno, proviene da una di queste. «La madre era una kisti», ricorda Makvala Margoshvili. «Il padre, invece, un cattolico ortodosso». La sua storia, qui, la conoscono tutti. La casa dove è cresciuto è ai margini della strada che attraversa Birkiani, ai piedi di una collina. Di fronte al cancello di ferro arrugginito, cataste di legna tagliata. Due ragazzini tornano a casa su un carretto trainato da un cavallo. Tarkhan faceva una vita simile: nato l’11 gennaio del 1986, ha trascorso l’infanzia tra la scuola e i campi. La valle del Pankisi è splendida ma povera, chiusa com’è dalle montagne del Caucaso. Da piccolo, Tarkhan custodisce le bestie del padre e di qualche vicino. «Un ragazzino come tanti», ricordano allo spaccio del paese. La storia comincia a travolgerlo con la seconda guerra cecena, nel 1999. A pochi chilometri di distanza, oltre le montagne innevate, i ceceni combattono contro l’esercito russo. Sono passati appena tre anni dalla fine della prima guerra cecena.

IL FUTURO LEADER MILITARE dello Stato islamico ha tredici anni. I discorsi dei grandi lo incuriosiscono. Comincia a familiarizzare con le idee che vengono da fuori. «È stato allora, con l’arrivo dei profughi di guerra, che nel Pankisi ha cominciato a diffondersi il fondamentalismo», ricorda Omar Aldamov, l’imam della moschea “tradizionale”, sufita. «Con la seconda guerra cecena, i giovani hanno smesso di seguire l’Islam tradizionale abbracciando il wahabismo, arrivato con i soldi dei sauditi», nota l’imam, barba rossiccia, pantaloni blu, giacca di pelle e zuccotto in testa. Il piccolo Tarkhan però non è del tutto convinto. Quest’idea del jihad suona strana, alle orecchie di un ragazzino cresciuto nella tollerante comunità sufi. Ma è sicuro di una cosa: i russi devono pagare. L’occasione non manca. La valle del Pankisi è un crocevia di traffici. Profughi, guerriglieri, armi, droga. Tutto passa di qua. «Il vero inizio della sua carriera è quello», si mormora a Birkiani. Tarkhan aiuta i ribelli anti-russi: facilita l’attraversamento clandestino del confine. Fornisce informazioni logistiche. Poi l’eco della guerra si fa lontano. Torna a scuola. Finisce le superiori.

Tra il 2006 e il 2007 arriva il servizio militare in Abkhazia, la regione georgiana che reclama l’indipendenza da Tbilisi, con il sostegno della Russia. Tarkhan intuisce il suo destino: soldato. Si arruola nell’esercito. Finisce in una squadra di ricognizione speciale. In un’intervista per il “Wall Street Journal” il suo ex comandante, Malkhaz Topurias, ne ricorda le doti militari. Tarkhan raccoglie encomi. Fa carriera. Diventa sergente. Durante la breve guerra russo-georgiana del 2008 è sulla linea del fronte. Spia i carrarmati russi. Gira le coordinate al comando di Tbilisi. Poi, nel 2010, la svolta. Gli viene diagnosticata la tubercolosi. Trascorre diversi mesi all’ospedale militare. Al posto della promozione arriva il congedo. Confida al padre che la Georgia l’ha deluso. Nel settembre 2010 viene accusato di aiutare gli islamisti anti-russi, di nascondere armi ed esplosivi. Condannato a tre anni, finisce in carcere. Lì torna in contatto con il radicalismo salafita. Si radicalizza. «Ho promesso a Dio che, se fossi uscito vivo dalla prigione, sarei andato a combattere il Jihad per amore di Dio», avrebbe raccontato più avanti, in una rara intervista. Rilasciato dopo 16 mesi, abbandona la Georgia.

DALLA VALLE DEL PANKISI alla Turchia. Da lì alla Siria. Il percorso compiuto nel 2012 da Tarkhan Batirashvili traccia una rotta. In seguito, molti lo avrebbero emulato. «Siamo davvero preoccupati», commenta all’uscita della moschea tradizionale Khaso Khangoshvili, appoggiandosi sulle stampelle. È uno dei membri del Consiglio degli anziani. Ai primi di aprile, quando si è saputo che due ragazzi del Pankisi erano partiti per la Siria, si è fatto sentire a Tbilisi. «Al governo e al ministro degli Interni abbiamo detto che devono darsi da fare. Questa è una terra povera. Servono strade, infrastrutture, posti di lavoro». Muslim Kushanashvili, 16 anni, e Ramzan Bagakashvili, 18, sono soltanto i nomi più recenti di una lunga lista. «Negli ultimi tempi sono partiti almeno 18 ragazzi. Sei sono già morti», sostiene l’imam Aldamov. «Sono cinquanta», dice qualcun altro. Ma sui numeri non c’è chiarezza.

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E poco chiara è anche la parabola che in soli due anni ha portato Tarkhan Batirashvili, ex pastore e soldato dell’esercito georgiano, a diventare Abu Omar al Shishani, il comandante delle forze armate dello Stato islamico in Siria. «Sappiamo solo che ora tutti lo rispettano», accennano due ragazzi sedicenni di fronte alla moschea “nuova”, quella dei sauditi, un sobrio edificio in mattoni rossi, sempre in costruzione. Per Abu Omar al Shishani il rispetto e la fama cominciano ad arrivare quando diviene leader del gruppo “Jaish al-Muhajirin wa Ansar”, formato prevalentemente da ceceni e da affiliati dell’Emirato islamico del Caucaso. La sua fazione gioca un ruolo chiave nella conquista della base aerea di Menagh, nella provincia di Aleppo. Nel 2013, il giuramento di fedeltà al Califfo al-Baghdadi. E l’ascesa nei ranghi militari dello Stato islamico. Fino al posto più ambito: nel giugno 2014 il comandante Abu Abdul-Rahman al-Bilawi al-Anbari viene ucciso a Mosul. Omar prende il suo posto. Capo delle forze armate in Siria.

SONO MOLTO DIVERSE LE PARABOLE degli altri ragazzi partiti dal Pankisi per la Siria. «All’inizio ci si andava per combattere un dittatore, un oppressore dei musulmani. Per difendere l’Islam. Ma quello che succede oggi non ha niente a che fare con il vero Islam», sostiene Musa. Trentaquattro anni, il volto affilato, la lunga barba rossa e gli occhi spiritati, Musa è l’unico che accetta di parlare, nel gruppetto di giovani barbuti davanti alla moschea “nuova”. «Parlo, ma senza nome e cognome, qui tutti mi chiamano Musa». Crede nel jihad, ma è deluso dal modo in cui lo pratica lo Stato islamico: «Uccidere vecchi e bambini, distruggere le moschee è forse Islam? È guerra fratricida. Tanti che erano partiti sono tornati in valle. Oggi il flusso verso la Sira è molto minore», dice. Ma non si arresta.

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«Spero che mio figlio torni presto a casa». È la prima cosa che Tina Alkhanashvili ci dice, invitandoci ad entrare. Siamo nel villaggio di Dumasturi. Una casa povera, semplice. Un divano, una stufa su cui bolle il tè. Un tavolino con un paio di riviste e una confezione di medicine. Tina non smette di tossire. Ha quattro figli. Due di loro non li vede da anni. «Sono separata. Vivono con il padre in Cecenia, a Grozny. Insieme a mia madre ho cresciuto gli altri due, Ramzan, 18 anni, e Risuan, 16 anni», che portano il cognome dell’ex marito, Bagakashvili. Ora con lei c’è solo Risuan.

IL 2 APRILE IL FRATELLO maggiore, Ramzan, è uscito di casa e non è più tornato. «Tardava a tornare da scuola e mi sono allarmata. Ho chiamato la polizia. Hanno fatto dei controlli e mi hanno detto che aveva preso un volo per la Turchia, insieme a un amico». Dopo qualche giorno, bussano alla porta. Sono i vicini: «C’è tuo figlio in tv. Combatte in Siria». Tina non riesce a crederci. «Era vestito da guerrigliero». Proprio come Omar il ceceno. «Non potevo credere ai miei occhi. Aveva dei progetti. Finita la scuola voleva iscriversi all’università. Era un ottimo studente». Ramzan non era un fervente religioso. «Pregava, certo, ma niente di più. Come tutti i giovani, andava alla moschea nuova». Non sa perché suo figlio sia partito. «Forse per combattere, perché crede che chi muore nel jihad diventa un martire e merita un posto in paradiso. Non so». Non lo giudica. «Spero solo che torni presto. Vivo. E che non decida di partire anche il fratello, Risuan. Mi è rimasto solo lui».

Tina sospetta che qualcuno, nel villaggio, abbia aiutato suo figlio. Anzi, ne è certa: «Non dico che l’abbiano costretto, che non volesse andare. Ma mio figlio era malato, aveva problemi ai reni. Quando avevamo bisogno di soldi per le medicine e i dottori nessuno ci ha aiutato». Per il jihad in Siria i soldi sono saltati fuori. «Qui i soldi non ci sono, si decide solo come spenderli. Arrivano da fuori». A bocca stretta, qualcuno nella valle del Pankisi si lascia sfuggire che il denaro per i giovani jihadisti provenga proprio da Omar. L’ex pastore con una taglia di cinque milioni di dollari sulla testa.

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