Il presidente russo si è privatizzato una regione della Siberia eletta dall’Unesco a Patrimonio dell’Umanità, dove è stata costruita una nuova residenza di Stato. Non può entrarci nessuno: tranne lui, la Gazprom e Berlusconi

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L’ultima visita privata di Silvio Berlusconi a Vladimir Putin non deve essere stata proprio piacevole, almeno a giudicare dal cappotto con il bavero alzato con cui il Cavaliere si è fatto fotografare mentre si sforzava di pescare insieme al presidente russo, con tanto di plaid sulla sedia. Del resto anche a fine giugno la Siberia resta una terra ostile, con escursioni termiche molto forti e venti gelidi che arrivano dai ghiacciai del monte Belucha.

Eppure è qui che l’amico Vladimir ama rifugiarsi quando può; e Silvio si è dovuto adeguare, trascorrendo con lui un fine settimana in quello che è ormai il suo buen retiro, a 4 mila chilometri da Mosca: la dacia di Onguday, nell’Altai, il Tibet russo. Il capo del Cremlino ha scelto questa Repubblica autonoma incastonata tra la Mongolia, la Cina e il Kazakistan per le sue vacanze; dando il suo assenso, affinché in questa regione selvaggia della Siberia occidentale grande quanto il Portogallo, ma con la stessa popolazione di Trieste, eletta dall’Unesco a Patrimonio dell’Umanità, venisse costruita una nuova residenza di Stato. L’ennesima, e anche la più riservata, lontano da tutto: praticamente un eremo in mezzo ai boschi.

E così che nel 2013 è stato inaugurato l’«Altai Compound» un resort a due piani che assomiglia ad una pagoda orientale, su un’altura che s’affaccia sul Katun’, in una valle circondata da fitte foreste di pini, abeti e larici, e protetta anche dalla «Federal’naja služba bezopasnosti», l’ex Kgb. D’altronde questa è una terra di frontiera, e per accedervi occorre un lasciapassare dei servizi segreti. Altrimenti è consentito solo transitare sulla M52, il «Chuysky Trakt», la statale solitaria che attraverso 500 chilometri di montagne boscose porta da Gorno-Altajsk, il capoluogo dell’Altai, al valico di Tashanta, la frontiera mongola.

La presenza degli 007 è motivata anche dall’importanza strategica che questa remota regione ha per le politiche energetiche della Russia. Perché è da queste alture che passerà in futuro una fetta consistente del gas destinato a soddisfare la domanda cinese. A partire dal 2019 almeno 30 miliardi di metri cubi di gas l’anno saranno convogliati attraverso quella che Gazprom chiama la «rotta occidentale», una nuova pipeline che collegherà la penisola di Jamal, nel mar Artico, con la provincia cinese dello Xinjiang, passando per la Repubblica dell’Altai fino al passo di Kanas. Questo gasdotto costerà circa 20 miliardi di euro, e andrà ad affiancarne un secondo che alimenterà la Cina lungo la «rotta orientale», che da Irkutsk va in Yakutia. Lo scorso maggio Putin ha firmato con il presidente cinese Xi Jinping un accordo di fornitura trentennale destinato a mutare gli equilibri geoeconomici del continente. Ma anche a stravolgere la fisionomia di questo angolo incontaminato della Siberia.

Le credenze sciamaniche diffuse nell’Altai attribuiscono un valore spirituale al paesaggio. Cime innevate e ghiacciai, canyon e foreste, fiumi e sorgenti d’acqua sono ancora oggi al centro di culti e pratiche rituali. Questa sacralità è stata però violata dalle infrastrutture necessarie per la villa del presidente. Per costruire la deviazione che dal km 651 del «Chuysky Trakt» porta alla dacia, e l’annessa centrale idroelettrica che la rifornisce di energia, sono state spianate intere vallate. Con il risultato che una ventina di siti archeologici sono andati distrutti, e quasi altrettanti sono stati parzialmente danneggiati.

Perché le aree intorno a Onguday, dai villaggi di Shiba e Tuekta fino alle rive dei fiumi Katun’ e Chuya, sono disseminate di incisioni rupestri, sculture e «kurgany», tumuli di pietre accatastate. Sono tombe e monumenti funerari risalenti alla civiltà Pazyryk, una popolazione seminomade vissuta su queste alture intorno al VII-VI secolo avanti Cristo. Ma le «montagne d’oro» (questo il significato di Al-tai) dovevano all’epoca essere abitate già da millenni, perché è da qui che transitarono le grandi migrazioni indoeuropee del tardo Neolitico. Tanto che nelle valli del Karakol e dell’Ursul sono stati censiti più di 5 mila reperti archeologici. Ed è esattamente lì che tra qualche anno passerà anche il controverso gasdotto.

A denunciare questi scempi è stato tre anni fa un piccolo giornale locale, “LIStok”. Il suo direttore, Sergei Mikhailov, è stato però condannato ripetutamente per diffamazione, subendo anche vari arresti, l’ultimo lo scorso aprile. E un suo giornalista, Ruslan Makarov, che aveva svelato un caso di corruzione legato alla costruzione di un’altra centrale nella valle di Ust Koksa, è stato internato in un manicomio, con l’accusa di aver messo a rischio l’incolumità del governatore dell’Altai, Aleksandr Berdnikov. Un fedelissimo di Putin, al suo terzo mandato, che ovviamente sostiene il progetto del gasdotto.

Si capisce dunque perché la gente di queste montagne non veda di buon occhio la presenza del Cremlino. La dacia di Putin è stata del resto costruita proprio dalla Gazprom. Costata circa 3 milioni e mezzo di euro, arredata da architetti italiani, la struttura ufficialmente doveva ospitare convention aziendali. Ma è piaciuta al presidente, che l’ha adottata.

Il gas nell’Altai vuol dire però anche progresso e modernità. Perché per migliorare la propria immagine la Gazprom ha dispensato infrastrutture a tutta la regione. E così nel 2012 è stato completato l’aeroporto di Gorno-Altaysk, che ha messo fine al secolare isolamento di una Repubblica ancora oggi non raggiunta dalla ferrovia. Alla città sono stati donati anche un nuovo stadio e un museo. E in tutte le case sono stati portati gas, luce e servizi igienici: una rivoluzione per gli standard del posto. Per dare impulso al turismo sono state costruite infine strade, ponti e centrali; e anche resort di villeggiatura a beneficio della nomenklatura locale.
Ma le associazioni ambientaliste e i comitati scientifici hanno continuato a mettersi contro a questa filosofia di sviluppo. Pure l’Unesco è scesa in campo. Perché l’Altai ospita una delle riserve più ricche al mondo per biodiversità, con quasi 1.300 specie di piante e alberi, più di 70 varietà di mammiferi, 300 razze di uccelli, circa 1.200 laghi. Qui hanno il loro habitat naturale animali a rischio di estinzione, come il leopardo delle nevi, l’argali (un montone selvatico), lo stambecco siberiano, il gatto delle steppe, il maral (una varietà di cervo) e il gipeto barbuto. Il paradosso è che proprio Putin è un convinto difensore di questo ecosistema: e ama spendersi a sostegno delle campagne per la protezione del leopardo delle nevi. Ma di fermare la Gazprom non ne vuole sapere.

Si dice che questa passione per l’Altai sia l’effetto della svolta mistico-naturalistica degli ultimi anni, che hanno rivelato un presidente solitario e incline allo spiritualismo, e l’hanno visto sposare ideologie come l’«eurasiatismo». Una corrente di pensiero assurta a nuova dottrina di Stato, che si richiama a storici come Lev Gumilëv, lo studioso dei popoli della steppa (figlio di Anna Akhmatova e del suo primo marito, il poeta Nikolaj Gumilëv): esaltando le radici turco-mongole della nazione russa, rivalutando Gengis Khan e l’esperienza dell’Orda d’oro, e mettendo l’accento sugli elementi occulti delle proprie tradizioni, come antidoto al razionalismo, materialismo e individualismo occidentali.

La riscoperta degli antichi credi e delle religioni dell’Asia centrale, come il burcanesimo, un misto sincretico di buddhismo, cristianesimo ortodosso e animismo, ha spinto il Cremlino a finanziare qui anche un museo dedicato a Nicholas Roerich, l’artista, teosofo ed esploratore che nel 1926 venne su questi monti alla ricerca del mitico regno di Shambala. Non lo trovò, beninteso. Ma con Roerich, Putin sembra ritenere l’Altai come un centro di energia cosmica in cui rigenerarsi. E magari prendersi anche la libertà di cavalcare a torso nudo nella taiga, come una specie di khan mongolo dei nostri tempi.