
Khanke, alla periferia di Duhok, ospita uno dei campi profughi più grandi della regione autonoma del Kurdistan iracheno. Tra le case con i cancelli decorati e gli scarichi a cielo aperto, molte famiglie sono ospitate dai parenti, o vivono nelle tende ai bordi della strada o occupano edifici in costruzione. E al tramonto, qualsiasi sia il loro grado di istruzione, emancipazione, disperazione, le donne escono sulla soglia con i bambini, e le ragazze per incontrarsi.
Jinan ha 13 anni e abita con 9 fratelli in una tenda dentro il campo, dopo essere fuggita con loro e con altri 430 mila. Suo padre combatte con la Resistenza yazida, alleata dei soldati curdi peshmerga. Sa che il Califfato li considera eretici e per questo li ha rapiti o trucidati, ma non capisce perchè il mondo abbia lasciato che accadesse. Sogna di laurearsi, e intanto guarda sul telefono i suoi selfie con e senza occhiali. Ha anche le foto di un noto cantate curdo venuto al campo per girare il videoclip della sua canzone sul dramma degli yazidi. “E' stato un giorno speciale”.
[[ge:rep-locali:espresso:285163510]]
Jane e Imana invece vivono in un agglomerato di stanze affacciate sul cortile dove si ritrovano ogni mattina con una ventina di altre ragazze, tutte della stessa casa. Hanno 15 anni e una venerazione per il fratello maggiore, da poco entrato nell’esercito curdo. Tra i vestiti ha la maglia col 10 di Totti, e nei momenti di riposo al fronte disegna volti femminili. Loro li hanno fotografati col cellulare e li mostrano a tutti con orgoglio. Hanno gli stessi occhi grandi di quei disegni. “Visto? E’ un artista vero”.
Adol invece ha 60 anni e suo marito era un generale caduto in Iran. Grazie ai suoi figli è riuscita a mettersi in salvo in auto, mentre assaltavano il suo villaggio. La sua casa è ancora in piedi, ma ha il tetto bruciato e nessuno è ancora riuscito ad entrarci per recuperare qualche oggetto. Era proprietaria di un allevamento di galline, vorrebbe vederlo ripartire, ma la sua vita si svolge ormai in poche stanze arrangiate. “Lassù ancora non c’è acqua e corrente elettrica, hanno tagliato i fili”.
Xate invece i suoi pomeriggi li passa ad addestrarsi con un fucile Ak 47. Ha 30 anni, era una cantante e suonatrice di liuto. C’era anche lei tra le 50 mila persone fuggite sulle alture per salvarsi dai massacri, ed è rimasta per 10 giorni senza cibo e soccorsi. Sei mesi dopo ha chiesto l’autorizzazione al presidente del Kurdistan Massoud Barzani e l’ha ottenuta: è la prima donna yazida generale dell’esercito peshmerga, alla guida di 400 soldatesse, già operative a nord di Mosul. “Mio padre mi da un bacio in fronte ogni mattina, quando vede che indosso la divisa”.
Najha e Sidan vivono a casa del suocero, con nipoti e sopravvissuti. Hanno venticinque anni e non sono riuscite a fuggire dal rallestramento nel proprio villaggio: per cinque giorni sono state in mano ai jihadisti. “E’ come se ci avessimo passato un anno. Sono sporchi, e luridi moralmente”. I mariti sono stati uccisi davanti ai loro occhi. E quella scena la vedono ogni volta che chiudono gli occhi.
Le donne yazide sono libere, si sostengono, combattono, si sposano con grandi abiti bianchi di tulle. Amano la tecnologia ma conservano gelosamente i riti della proprie tradizioni. Gli uomini le rispettano perchè sono loro il cuore pulsante di un’identità culturale e religiosa millenaria, sempre perseguitata, ma caratterizzata dalla tolleranza, dall’accoglienza e dal senso di comunità. Si mostrano e raccontano anche e soprattutto in nome di quante non ci sono più di quelle di cui non si ha più notizia, e di chi è ancora prigioniera dei miliziani dell’Isis, che le considerano bottino di guerra.
La regione autonoma del Kurdistan ha saputo accogliere quasi un milione di sfollati delle minoranze cristiane, sciite, turcomanne, e soprattutto yazide, da Mosul, dalla provincia di Ninive, dalla piana di Sinjar. L’emergenza nell’emergenza, dopo l’accoglienza e l’allestimento dei campi, è stata prendersi cura dei bambini e delle donne, specie quelli che hanno subito le violenze degli uomini del Califfato. Le ultime cifre, rese note dalla parlamentare yazida del governo iracheno Vian Dakil, parlano di 5.820 yazidi rapiti. 2.200 quelli liberati anche tramite le reti dei trafficanti e i riscatti delle famiglie.
Tremila, secondo le stesse stime, il totale delle donne rapite per diventare “spose” dei jiadisti, sottoposte a violenze di ogni genere. Anche l'Italia fa la sua parte per sostenerle. Sono 300 quelle che al Jinda Center a Duhok hanno a disposizione cucina, giardino, sale per attività pratiche e anche per il trucco e la cura del corpo e dei capelli. Attività che svolgono assistite da un team di sole donne, tra cui una psicologa. Non sono ammessi uomini, che siano visitatori o medici o altro. Si tratta di centro di accoglienza e riabilitazione gestito da Unicef con la ong tedesca Wadi, finanziato con 500 mila euro del milione che il Governo italiano ha destinato all’aiuto della minoranza yazida. Donne che si incontrano durante il giorno per riprendersi la normalità, così come quelle che con i figli beneficeranno del Pediatric Intensive Care Unit all’interno dell’ospedale “Hevi”, realizzato in collaborazione con il Dipartimento della Sanità di Duhok, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l'Università di Sassari insieme alla Aispo, la ong legata all’ospedale San Raffaele.
E al pari di paesi europei che ospitano comunità curde numerose come Germania e Svezia, potrebbe essere approvato presto il progetto di accoglienza proposto dall’Istituto Internazionale di Cultura Curda di Roma, che sta pianificando insieme a partner come la Comunità di Sant’Egidio un programma di soggiorno e riabilitazione di 50 donne yazide.
Da quando l’Isis ha attaccato la montagna, Aniya dorme su un divano o nel letto della madre se non c’è la corrente elettrica per il ventilatore: nel resto della casa ci sono i parenti sfollati. Ha 23 anni, ha perso dei familiari anche lei, parla un pò di inglese, studia architettura e sogna di lavorare in Italia. Si adatta col sorriso, guarda avanti.
“Noi viviamo anche per le nostre sorelle”, dicono tutte. Vogliamo giustizia e il riconoscimento internazionale del genocidio, ma la nostra comunità è più forte e unita di prima”.Questo forse l’Isis non l’aveva calcolato.