Mondo
3 settembre, 2015

L'inviata Francesca Borri: "Le guerre? Non sono solo quelle con i carrarmati"

L’inviata di guerra racconta dei suoi viaggi e spiega che cosa voglia dire fare il suo lavoro nel 2015. E denuncia: non abbiano né tutele né pagamenti adeguati

Non basta una lista di requisiti da spuntare per fare di un giornalista un grande giornalista, e sicuramente non bastano i consigli, le correzioni, le voci fuori e dentro il coro. Il mestiere lo impari sul campo, scrivendo e correggendo, andando accapo e tornando indietro. Il buon giornalista è tale (anche) perché ci nasce. Nasce, cioè, con qualcosa che lo rende capace di immedesimarsi, pur rimanendo in disparte; che gli fa raccontare storie puntualmente, precisamente, senza inventare ma andando talmente a fondo da colpire chi legge.

Francesca Borri, classe '80, ha questa capacità: è un'inviata di guerra, occhi e orecchie su mondi a noi totalmente estraneo e lontano. Lavora per Il Fatto Quotidiano e per Internazionale. I suoi articoli vengono pubblicati in tutto il mondo, dalla Francia all'Inghilterra al Sud America. È stata in Siria, Israele, nella striscia di Gaza; solo pochi giorni fa, è ritornata dall'Ucraina. Nasce come specialista di diritti umani e arriva in Medio Oriente giovanissima. Noi la sentiamo al telefono un sabato di fine agosto. È a Roma, una pausa prima di tornare sul fronte siriano.

Viso ovale, sguardo intelligente, un neo tra gli occhi. In foto Francesca ha i capelli sempre coperti. O perché indossa un elmetto o perché li tiene raccolti in un velo.

Perché hai deciso di diventare giornalista di guerra?
Ero in Medio Oriente già da anni, in realtà, come specialista di diritti umani. Solo che non ha senso difendere i diritti umani in Afghanistan se poi non sei capace di difenderli a casa tua: e un giorno ho deciso di raccontare l'Ilva di Taranto. Perché le guerre non sono solo quelle con i carrarmati - quelle sono solo le guerre più facili da vedere. Senza le inchieste di tanti di noi, non avremmo mai avuto le inchieste della magistratura. La parola non descrive: crea. Le cose esistono solo quando vengono raccontate. E solo quando esistono possono essere cambiate. E quindi poi sono tornata in Medio Oriente: ma da giornalista.

Un paio di anni fa si è molto discusso di un tuo articolo pubblicato negli Stati Uniti, in cui denunciavi lo sfruttamento dei freelance e in particolare dei freelance di guerra. Con quello che guadagnate, non coprite neppure le spese. Le cose sono cambiate da allora?
No. Non in Italia. E comunque non abbastanza.
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E c'era anche la questione "inviato donna".
Che è una questione complessa. Perché in realtà ogni corrispondente di guerra ha una serie di caratteristiche che a seconda dei contesti semplificano o complicano le cose. Essere una ragazza è solo una di queste caratteristiche. Come essere americano piuttosto che svedese. Nel mio caso, conta molto il mio rapporto con la Palestina, l'avere casa a Ramallah, e, più in generale, il non essere di passaggio, l'abitare nei luoghi di cui scrivo. Che è il solo modo per scrivere di persone, invece che di personaggi. Ma più di tutto, onestamente, conta l'essere una che non si tira indietro. Che fa le sue battaglie. Non è, appunto, che critico i talebani in Afghanistan, però poi non so vedere i talebani di casa mia. E poi, sì: in tutto questo, sono anche una ragazza.
Cosa che in genere, confesso, semplifica la vita. Me la complica non con i musulmani, ma con gli altri giornalisti. Qualunque cosa dici, ti dicono: Cos'è, hai paura? A Kobane, a dicembre, avevamo l'Is a cento metri. Cento. E questo fotografo insisteva per scattare un selfie con una di quelle loro bandiere nere tanto scenografiche. E cioè con i cecchini alle spalle. Guarda, gli dico: Ma anche no. Mi fa: Per questo mestiere ci vuole coraggio. Non è roba da femmine. Il problema è che il coraggio, a Kobane, ti serve per entrare. E il difficile non è entrare, è uscire. Per quello non hai bisogno di coraggio, ma di lucidità. Il migliore dei giornalisti di guerra, tanto per cominciare, è il giornalista vivo.

Cosa significa, nel 2015, essere un inviato di guerra?
Le cose che sai. Non ho un contratto, non ho tutele. Non ho diritti. Più internet e tutta la questione dell'online. Però, al fondo, quando leggo Robert Fisk sul Libano o Michael Herr sul Vietnam o persino Erich Maria Remarque sulla prima guerra mondiale, leggo di me e delle mie guerre. Dico davvero. Non c'è nessuna differenza. Solo le armi - e a volte neppure quelle. E mi interessa più questa similitudine, onestamente, che le differenze tra Twitter e il telegrafo. Perché ti fa capire che la tua guerra non è diversa dalle altre. Non è la più feroce di sempre. Ti fa capire che non esiste il male assoluto: e quindi il nemico assoluto. È tutto umano, molto umano - anche le cose più atroci. Comparare, relativizzare, non nel senso di sminuire, ovviamente, è fondamentale. Soprattutto oggi. Ho 35 anni, e prima dell'Is ho già visto Bin Laden, Saddam e Milosevic.

In questi giorni in Italia si è discusso molto di storytelling. Ne hanno parlato con le dovute differenze Federico Ferrazza di Wired, Luca Sofri del Post e Alberto Puliafito di Blogo. Costruire una storia, un racconto, intorno a un fatto, sembra essere uno dei problemi del giornalismo.
Problema? È il giornalismo al suo meglio. Prima, però, bisogna capire cosa intendiamo per storytelling. Perché quando significa non raccontare una storia, ma storie, nel senso balle, quando significa travestire di retorica la povertà di contenuti, allora ha ragione Luca Sofri. Ma lo storytelling è l'opposto. Pensa Roberto Saviano. Che è un altro che viene crocifisso in continuazione. E che invece ha una padronanza straordinaria di quello di cui scrive, della criminalità. Dall'Albania al Burundi. Per raccontare una storia come sa raccontarla lui, per centrare il dettaglio su cui costruirla, andare all'essenziale, all'emblematico, devi studiare mille volte di più di chi fa cronaca. C'è l'informazione, c'è quanto accade. E poi c'è il giornalismo, che è la comprensione di quanto accade. C'è la Reuters e c'è il Guardian. E non c'è alcuna contrapposizione. Per spiegare una guerra a te, che per fortuna, non hai idea di cosa sia, è più importante raccontarti che i cecchini, la mattina, parcheggiano l'auto davanti al portone come andassero in ufficio, piuttosto che riassumerti chi è avanzato oggi, e di quanti metri. I problemi del giornalismo, per me, sono altri.

E quali?
Il giornalismo più a rischio, oggi, è quello di inchiesta. Un'inchiesta richiede settimane di lavoro: non puoi scriverla per cento euro. E soprattutto, non puoi scriverla senza tutele. E in Italia sei solo. A Concita De Gregorio hanno pignorato casa e stipendio perché l'Unità è fallita e l'editore è sparito. E paga lei: per cause di diffamazione che come si usa in Italia sono spesso cause di intimidazione. E in cui l'Unità neppure si è difesa. E noi stiamo qui a discutere se sia meglio scrivere in prima o terza persona singolare. Concita De Gregorio sa usarle entrambe, entrambe alla perfezione. Al momento, però, il problema è che non può comprarsi la penna per scrivere.

Quindi per te il giornalismo, oggi, non può essere solo cronaca. Con i social, è necessario portare il lettore con sé. Rendere la notizia "personale".
Ma non per via di internet. Lo stile, diceva Hemingway, è l'efficacia di una frase. Punto. Per me non esiste altro. Il mio obiettivo è essere letta. E questo non significa necessariamente usare la prima persona. Affatto. Significa essere flessibili. Per l'Ucraina, per esempio, o Gaza, non userei mai la prima persona. O per i profughi. Non starei mai dentro la storia. E comunque, quando uso la prima persona, non la uso per parlare di me, ma per farti capire che non sto parlando di un mondo lontano, di un mondo altro, quando parlo di Siria: ma del tuo mondo. Non parlo di me, quando parlo in prima persona: parlo di te. Mi dicono: Hai scritto un libro sulla Siria. No. Ho scritto un libro sulla solitudine. Voglio che il lettore si senta insieme a me, nient'altro. Non ho regole. Puntualmente, mi arriva l'editor americano che mi spiega: Un pezzo si inizia così, con tre righe di virgolettato, poi cinque di sintesi, poi dieci di non so che altro, e ogni volta: "Si vede che lei non è laureata in giornalismo". E si vede che lei non legge. Prima di essere una che scrive, sono una che legge. Una storia si scrive come deve essere scritta per essere letta.

E perché per i profughi non useresti mai la prima persona?
Perché il dramma del profugo non è il freddo o la fame: è la perdita di identità, di certezze. Di prospettive. Puoi stare tra i profughi una settimana, puoi anche viaggiare con loro fino a Lampedusa, fino alla Svezia: ma non puoi mai veramente capire cosa significa. Quando stai a Baghdad in mezzo alle autobomba, sei uguale agli iracheni. Lo stesso pericolo, la stessa paura. Ma se anche stai su un gommone, no: tu hai una casa, una vita a cui tornare. E il dramma del profugo, invece, è che non ha ritorno.

Tra pochi giorni rientri in Siria. Qual è la situazione?
La Siria... Cosa posso dire? Che prima mi occupavo solo di Siria, poi di Siria e Iraq. E ora di Siria, Iraq e Kurdistan. E di Europa: dal momento che i siriani provano tutti a venire qui, e in Siria, ormai, trovi più stranieri che siriani. È dura, dura oltre ogni immaginazione. Ma so solo che per i siriani è più dura che per me.

Di Siria hai parlato anche nel tuo ultimo libro, La guerra dentro. Come mai, secondo te, non se ne parla sui giornali e in televisione?
Per molte ragioni. Per ragioni politiche, per cui a tratti gli americani, e i francesi e i sauditi, nel senso di 'al Jazeera', non hanno voluto parlarne. Poi per ragioni legate alle caratteristiche e ai limiti del giornalismo di oggi, basato sui freelance, su un certo tipo di free-lance. Perché la Siria non è una guerra per ragazzini. E poi per ragioni, naturalmente, legate alla guerra in sé, complicata da capire. E da coprire visto che ci decapitano. Però tra queste ragioni, voglio sottolinearlo, non ci sono i lettori. I lettori sono attenti. E sensibili. I lettori ti scrivono e ti dicono: Ho letto di Tatjana nel Donbass, sola sotto i mortai, posso ospitarla io.

Che consigli hai per un ragazzo che vorrebbe fare l'inviato di guerra?
Cominciare da Israele e Palestina. E non solo se decide poi di occuparsi di Medio Oriente, ma perché tutti noi abbiamo dentro cicatrici: tutti noi siamo stati feriti: ed è solo lì, solo tra israeliani e palestinesi, che impari a non lasciarti travolgere dal dolore. A trasformarlo in comprensione per gli altri, invece che in rancore. Invece che in aggressività, e altro dolore. Perché tutti noi ci siamo feriti ferendo. E perché alla fine una guerra è inutile: non parla mai solo di serbi e croati, sunniti e sciiti. Magari. Sarebbe tutto così semplice. Prima, terza, decima persona singolare, è inutile: ogni mia pagina sarà sempre insieme una finestra e uno specchio. Parlerà sempre di te.

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