Il no di Matteo Renzi ai raid anglo-francesi in Siria e ai bombardamenti in Iraq. Ma su un eventuale blitz libico contro l'Is il governo è diviso. Specchio di un occidente che non sa come affrontare il Califfato

Bombe in Siria contro lo Stato Islamico? No, grazie. Raid in Libia sulle basi del Daesh? Forse. L'Italia fatica a definire una sua linea operativa contro il dilagare dello Stato islamico. E teme che le azioni parallele e convergenti di Parigi e Londra la taglino fuori dalle decisioni chiave nello scacchiere mediterraneo. Con la prospettiva di ripetere il copione del 2011, quando gli attacchi anglo-francesi contro Gheddafi ci spinsero frettolosamente a inseguire gli alleati, senza una strategia sugli obiettivi da raggiungere.

Matteo Renzi è stato chiaro: «L'Italia non partecipa a iniziative come quelle che Francia e Inghilterra hanno annunciato di studiare. A mio giudizio occorre che la comunità internazionale abbia un progetto di lungo termine. Le iniziative spot servono e non servono». La discussione in questo momento è focalizzata sulla Siria, dove l'esercito del dittatore Bashar Assad è alle corde, tra defezioni e assalti di miliziani d'ogni genere. La sopravvivenza di Damasco si regge solo sulla legione straniera di combattenti sciiti, iraniani o hezbollah libanesi, e sul crescente sostegno russo, con forniture di armamenti e la segnalazione di soldati già in azione.

In realtà l'Occidente non sa che fare. Vorrebbe contemporaneamente abbattere il regime ed eliminare l'Is, senza però disporre di un piano alternativo per il futuro della Siria. La Turchia segue i suoi interessi, preoccupandosi soprattutto di colpire le basi del Pkk curdo, ossia dell'unica etnia che sul campo si è dimostrata capace di fermare il Califfato. Mentre un anno di bombardamenti americani non ha inciso sulla forza dell'autoproclamato Stato islamico, né in Iraq, né in Siria.

È dallo scorso autunno che una coalizione internazionale di tredici paesi attacca dal cielo i miliziani del Daesh, con un'efficacia a dir poco limitata. I risultati sono deludenti: gran parte dei mezzi distrutti sono quelli “made in Usa” che il Califfato ha conquistato negli arsenali dell'esercito iracheno. E d'altronde sono gli unici veicoli militari individuabili dal cielo: le truppe del Daesh non hanno uniformi né caserme, avanzano e combattono usando pickup e camion civili che la ricognizione fatica a individuare. Spesso le squadriglie tornano indietro senza sganciare le bombe, perché non trovano bersagli: fare fuoco tra le case che rappresentano la linea del fronte implica un altissimo rischio di fare strage tra la popolazione. E la ferocia dei tagliagole impedisce che sul terreno ci siano informatori disposti a segnalare i movimenti delle colonne con la bandiera nera.

Il bilancio dell'operazione viene monitorato dal sito britannico Airwars grazie al lavoro di un team di giornalisti investigativi. Fino al 7 settembre sono stati censiti registrati 6674 attacchi contro l'Is in Siria e l'Iraq, con l'uso di 19.760 tra bombe e missili. Si ritiene che i combattenti fondamentalisti uccisi siano 15 mila: una stima costruita sulle informazioni della coalizione a guida americana ma che persino alcuni generali statunitensi reputano esagerato. Durante i raid invece sarebbero morti tra i 536 e 1550 civili, numero difficile da verificare nei territori in mano al Califfato. E oltre un centinaio di soldati curdi o iracheni sarebbero stati vittime del “fuoco amico” in prima linea.

Dopo un anno, molti paesi arabi ed europei stanno ritirando gli aerei, per il costo eccessivo delle missioni. Per questo oggi c'è una pressante richiesta di Washington che chiede a diverse nazioni della Nato di prendere parte agli attacchi. Un appello rivolto anche all'Italia, che partecipa all'operazione con quattro Tornado e alcuni droni Predator schierati in Kuwait con compiti limitati alla ricognizione entro i confini iracheni. Ma finora il governo Renzi si è opposto. E questo nonostante anche importanti prelati si siano mostrati favorevoli a un intervento armato, come il cardinale Angelo Scola che ha detto: «come ha affermato papa Francesco “fermare l'aggressore ingiusto è un diritto dell'umanità...”».

La nostra attività principale nella lotta all'Is è il supporto alle truppe del Kurdistan iracheno, le più efficienti, che stiamo addestrando e armando con mitragliatrici e sistemi controcarro: nelle prossime settimane manderemo anche alcuni elicotteri pesanti Ch47. Meno convinto è il sostegno alla costruzione delle forze sunnite di Baghdad, che in battaglia si sono sempre date alla fuga, a cui contribuiamo con pochi istruttori per formare commandos e un contingente di carabinieri per creare una polizia locale.

Ma l'avanzata dello Stato islamico negli ultimi mesi è arrivata molto più vicina all'Italia, con il diffondersi delle bandiere nere anche sulla costa libica. L'unico ostacolo all'espansione provincia libica del Califfato è stata la resistenza delle brigate legate ad Al Qaeda, create da veterani dei conflitti in Afghanistan e Iraq, che hanno riconquistato due cittadine, tanto da avere spinto l'ex capo del Pentagono e della Cia David Petraeus a teorizzare l'impiego dei qaedisti per contrastare l'Is anche in Iraq.

Il governo di Londra è convinto che la strage di Sousse, con trenta turisti britannici assassinati sulla spiaggia tunisina, sia stata organizzata nei campi libici del Daesh. E da giugno preme perché vengano condotti attacchi contro queste basi, usando aerei e commandos. Al premier David Cameron non dispiacerebbe creare un'operazione europea che colpisca sia i terroristi, sia i porti dei trafficanti di uomini, come previsto dall'accordo dell'Unione che ha portato alla nascita di una flotta anti-scafisti. Una missione che avrebbe già ottenuto il sostegno francese e un sostanziale via libera americano: Washington infatti reputa che la Libia sia una questione europea e non intende impegnarsi in un altro fronte.

Il governo Renzi ha risposto no alle sollecitazioni di Londra. La posizione ufficiale è chiara: qualunque azione militare in Libia deve avvenire in accordo con un governo locale unitario, che si spera nasca dalle trattative condotte dal plenipotenziario Onu Bernardino Leon. Colloqui che restano in alto mare per l'opposizione delle autorità di Tripoli, di ispirazione islamica e in guerra aperta contro l'altro esecutivo di Tobruk. Nelle ultime settimane però le pressioni britanniche hanno creato una crepa sottile tra i ministri di Roma. Da una parte c'è Paolo Gentiloni, che teme di vedere la nostra politica estera spiazzata da un eventuale raid anglo-francese contro i campi libici dell'Is. Una posizione esplicitata due settimane fa nell'intervista a “l'Espresso”: «Se i libici non troveranno un accordo tra di loro, il ritorno alla normalità in quel Paese non si ottiene con avventure militari. Se, invece, mettiamo a fuoco la questione del pericolo terroristico, non mancano le possibilità di contrastare il fenomeno che in Libia appare ancora circoscritto e si potrebbe estendere il raggio di azione della coalizione anti Daesh anche alla Libia».

Dall'altra c'è Roberta Pinotti che non crede in azioni spot, di scarsa efficacia. Il nostro stato maggiore prepara da mesi i piani per una possibile missione libica, con la convinzione che l'unica chance di successo concreto sia quella di intervenire in accordo con le autorità locali e con le nazioni confinanti. Sia per evitare di finire in una trappola, che calamiti la reazione di tutte le milizie del Maghreb in nome del jihad anti-occidentale; sia per riuscire a costruire istituzioni stabili che sappiano gradualmente pacificare la Libia dopo quattro anno di combattimenti senza confine.

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