Il ricercatore Thomas Hegghammer, esperto di jihadismo-salafita, è pessimista. Secondo la sua analisi, nei prossimi venti anni l'Europa dovrà imparare a convivere con la minaccia jihadista. Per quattro ragioni strutturali: un bacino di reclutamento in espansione; un numero più alto di “imprenditori del terrore”; il prolungamento dei conflitti nel mondo islamico e l'ampia libertà operativa su Internet

«L'attivismo jihadista in Europa si farà più intenso, sul lungo-termine». Thomas Hegghammer, ricercatore al Norwegian Defence Research Establishment, docente di Scienze politiche all'Università di Oslo, alle spalle importanti libri e saggi sull'ideologia salafita-jihadista, azzarda una previsione. Presentata nei giorni scorsi in un numero speciale di Perspectives on Terrorism, rivista accademica della Terrorism Research Initiative, la previsione di Hegghammer è pessimista. A dispetto dell'indebolimento dello Stato islamico nei territori controllati in Siria e Iraq, e nonostante il flusso dei foreign fighters sia diminuito, il peggio non è passato. Anzi. «Nel breve termine, nei prossimi 2-5 anni», scrive il ricercatore, è probabile che si registri «un declino delle attività jihadiste», a causa delle misure legislative e militari adottate dai governi europei e grazie allo smantellamento delle reti di reclutamento e dei gruppi di mediazione come Islam4UK, Shari4Belgium, Fursan al-Izza. Ma nel lungo-termine, «da cinque a quindici anni da ora», l'attivismo jihadista è destinato a crescere.

La previsione di Hegghammer arriva a ridosso dell'attentato che lunedì 19 dicembre ha colpito Berlino, provocando la morte di almeno 12 persone e il ferimento di altre 49.

Le testimonianze
Dopo la strage, "la Berlino dell'accoglienza sia più forte dell'estremismo"
20/12/2016
Nella serata di martedì 20, lo Stato islamico ha rivendicato l'attentato. Diffusa attraverso l'agenzia stampa dell'Is, Amaq, la rivendicazione riprende una formula ormai consueta: «un soldato dello Stato islamico» ha condotto «un'operazione», rispondendo all'appello «per colpire i cittadini delle nazioni che fanno parte della coalizione internazionale» contro il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. La rivendicazione segnala un legame, perlomeno ideale, tra chi ha compiuto l'attentato e l'organizzazione del Califfo. Non chiarisce però di che tipo di legame si tratti, lasciando agli investigatori il compito di stabilire se sia stato soltanto ispirato dalla propaganda, oppure diretto e orchestrato dalla casa madre. Rimane incerta anche l'identità dell'attentatore (o degli attentatori). Il cittadino di origine pachistana fermato inizialmente non aveva nulla a che fare con la strage di lunedì 19 dicembre.  Secondo le ultime informazioni, la polizia sarebbe sulle tracce di un ventitreenne tunisino, Anis Amri, che sembra vicino ai gruppi salafiti e di cui è stato ritrovato un documento sotto uno dei sedili del camion usato a Berlino. Difficile stabilire, per ora, il grado di coinvolgimento diretto dell'intelligence militare dello Stato islamico, da cui dipendono le operazioni all'estero. Più facile farlo per gli attentati passati. Così fa Hegghammer nel suo articolo. Che registra una preoccupante crescita degli attentati jihadisti – pianificati o realizzati – in Europa.

L'attacco
Strage di Berlino, l'onda nera del terrorismo sulla politica tedesca
20/12/2016
Ecco qualche numero
: tra il 2014 e il 2016, sono state 273 le morti causate da attacchi jihadisti, più che in tutti gli anni precedenti; in soli 2 anni, nel 2015 e nel 2016, si sono registrati 14 attacchi jihadisti in Europa, una cifra tre volte e mezzo superiore rispetto alla media biennale dei precedenti 15 anni; nel 2015 e 2016, ci sono stati 29 piani di attacco (un computo che ovviamente esclude quelli di cui non si ha conoscenza), un numero due volte e mezzo superiore rispetto alla media biennale precedente; circa la metà degli attentati pianificati è stata poi realizzata, mentre nei 15 anni precedenti avveniva soltanto per un terzo dei casi.

Quanto ai foreign fighters, tra il 2011 e il 2016 almeno 5.000 europei hanno deciso di combattere in Siria, un numero cinque volte superiore a quello relativo a ogni altra destinazione di combattimento. Numeri molto alti, a cui corrisponde l'aumento degli arresti (non necessariamente delle condanne): tra il 2011 e il 2015, in Europa sono state arrestate circa 1600 persone legate al jihadismo, il 70% in più rispetto ai cinque anni precedenti (ed escludendo i dati provenienti dalla Gran Bretagna: circa 1200 arresti tra il 2011-12 e il 2015-16).

Dietro questi numeri così alti c'è lo Stato islamico, ricordano i ricercatori Petter Nesser, Anne Stenersen ed Emilie Oftedal in  Jihadi Terrorism in Europe. The IS-Effect, un altro dei saggi appena pubblicati su Perspective on Terrorism. «A partire dall'inverno 2013-14, la grande maggioranza dei piani terroristici presenta legami con lo Stato islamico». Legami di natura diversa, «dalle cellule addestrate e dirette dal gruppo, a individui che rispondono agli appelli dei portavoce dell'Is a compiere attacchi autonomi». Vedremo nelle prossime settimane come collocare l'attentato di Berlino. Per ora rimane sicuro che lo Stato islamico continuerà a colpire l'Europa. «Nei  prossimi tre-cinque anni», scrivono i ricercatori, «Is rimarrà il gruppo jihadista dominante nelle pianificazione di attacchi» nei Paesi europei,  colpevoli di partecipare alla coalizione contro il Califfato. La manodopera non manca: l'Is può fare affidamento su «un numero senza precedenti (5.000-6.000) di foreign fighters stranieri. Anche se solo l'1% di questi individui sopravviverà alla guerra e continuerà a combattere per l'Is, ci sarà un gruppo di 50-60 jihadisti europei radicali che saranno capaci di operare come facilitatori e reclutatori», per molti anni a venire.

Sono proprio “gli anni a venire”, la prospettiva di lungo-termine, a interessare il ricercatore Thomas Hegghammer, che basa il suo pessimismo sull'analisi di quattro macro-tendenze. Combinate insieme, indicano un «futuro con una radicalizzazione e una minaccia terrorista perfino maggiori di oggi». Il primo fattore è la crescita del numero di giovani musulmani esclusi economicamente e socialmente, in altri termini la disponibilità di reclute. Il secondo, già accennato, è la crescita del numero degli attivisti-veterani; il terzo è il prolungamento dei conflitti armati nel mondo musulmano; l'ultimo, la persistente libertà operativa su Internet.

Vediamo i quattro criteri nel dettaglio. Il primo riguarda il maggiore bacino demografico dal quale i jihadisti europei sono stati tradizionalmente reclutati: i giovani musulmani provenienti dalle fasce più svantaggiate della popolazione, caratterizzate da scarso livello di istruzione, basso tasso di occupazione, alti tassi di criminalità. Hegghammer mette insieme i dati: si prevede che nell'Europa del nord, dell'est e del sud la popolazione di religione islamica crescerà del 50% dal 2010 al 2030, passando da 25 milioni a 37 milioni.

Si prevede che quello islamico rimarrà il gruppo religioso maggiormente svantaggiato dal punto di vista economico, a causa della scarsa mobilità sociale nell'Unione europea e della discriminazione che soffre nel mercato del lavoro. Da qui, l'ipotesi che una parte – ampiamente minoritaria – possa aderire al jihadismo. Questo non dipenderà dall'equazione tra crescita della popolazione islamica e crescita dei jihadisti in Europa. Un'equazione proporzionale che non è provata. Ma dalla presenza e dalla disponibilità di organizzazioni radicali e reti di reclutamento. È il secondo elemento analizzato dal ricercatore.

La seconda macro-tendenza è più importante della prima: la crescita del numero di persone che agiranno da “imprenditori” del terrore, per reclutare e costruire reti operative. Dipende proprio dal numero senza precedenti di foreign fighters attualmente impegnati in Siria. Come abbiamo visto, tra il 2011 e il 2016 almeno 5.000 musulmani europei si sono recati in Siria, la maggior parte per unirsi a gruppi come lo Stato islamico o Jabhat al-Nusra. Un numero altissimo. Basta ricordare che nel periodo che va dal 1990 al 2010 i foreign fighters islamisti provenienti dall'Europa erano meno di 1.000. Degli attuali 5.000 combattenti europei impegnati in Siria non tutti torneranno in Europa, e non tutti decideranno di importare il jihad. Ma secondo alcuni resoconti, tra i 1.000 e 1.500 sarebbero già rientrati. Alcuni di questi hanno intenzioni preoccupanti. E godono di uno status autorevole agli occhi dei nuovi simpatizzanti. Storicamente, i veterani hanno avuto un ruolo centrale nella formazione di nuove comunità radicali, grazie alla loro esperienza e alla loro reputazione, appunto. Non è un caso, nota Hegghammer, che ci sia una continuità storica nei network del jihadismo europeo. «Nel caso di molti network operativi oggi, si può tracciare una genealogia che arriva indietro fino agli anni Novanta».

Ai foreign fighters di ritorno vanno aggiunti i detenuti nelle prigioni europee, condannati per reati legati al terrorismo di matrice islamista. Nei prossimi 5-10 anni, sostiene Hegghammer, molti individui con credenziali jihadiste torneranno in libertà. Saranno ancora giovani, con una potenziale carriera futura molto lunga. «Se la storia ci fa da guida, alcuni di questi individui possono diventare facilmente gli imprenditori jihadisti nel decennio 2020». Una stima conservativa suggerisce che oggi in Europa ci siano almeno duemila islamisti radicali con esperienza da foreign fighters o con la prigione alle spalle, o entrambe le cose. Forse solo alcuni di loro diventeranno militanti di lungo corso, ma i numeri sono così alti che il loro ruolo sarà comunque decisivo in futuro. Anche perché i pretesti del reclutamento non verranno meno.

È la terza macro-tendenza: la persistenza di conflitti armati in molte regioni del Medio Oriente, del Nord Africa e dell'Asia del sud. Conflitti che servono come fattori di reclutamento e come opportunità di addestramento per i nuovi jihadisti. Anche in Europa. Hegghammer nota infatti che l'evoluzione del jihadismo europeo è sempre stata «strettamente connessa con gli sviluppi politici nel mondo islamico». Il jihadismo è arrivato in Europa tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, quando i militanti islamisti stranieri hanno trovato nel vecchio continente un terreno di finanziamento e un rifugio sicuro. Dalla metà degli anni Novanta si è formata «una comunità jihadista indigena», condizionata dai conflitti esterni in due modi: in chiave di propaganda, i conflitti hanno fornito ragioni di risentimento contro l'Occidente e alimentato la retorica dell'Islam sotto attacco degli infedeli; in chiave logistica, hanno facilitato la nascita delle organizzazioni jihadiste che hanno poi accolto – dal Tajikistan alla Bosnia, dalla Cecenia al Kosovo, dalla Somalia all'Afghanistan – anche i foreign fighters europei, combattenti che hanno trovato nelle aree di conflitto non europee vere e proprie zone di profondità strategica e di protezione. Fuori dall'Europa, le aree di conflitto sembrano destinate ad aumentare, anziché diminuire. E probabilmente forniranno ai gruppi jihadisti spazi in cui operare e consolidarsi. Anche attraverso l'uso di Internet.

È la quarta e ultima macro-tendenza analizzato dal ricercatore Hegghammer: la grande libertà su Internet per gli attori che operano in clandestinità. Una libertà che consentirà ai jihadisti di diffondere propaganda, finanziarsi, reclutare, pianificare operazioni terroristiche. È una libertà che si afferma a partire dal 2010 circa, con l'avvento dei social media, che offrono canali di comunicazione più immediati e più sicuri, rendendo allo stesso tempo più complicato il lavoro degli apparati di intelligence, sommersi dalla mole di dati e canali di comunicazione da controllare. La libertà si traduce anche in maggiore efficacia operativa: nel novembre 2015 a Parigi, gli attentatori hanno comunicato al telefono perfino durante gli attacchi, mentre altri casi recenti dimostrano come alcuni attentatori in Europa siano stati «addestrati e indirizzati da remoto», dagli uomini del Califfo in Siria e Iraq. In qualche caso, è bastato un semplice contatto via Telegram tra la Siria e l'Europa per condurre un simpatizzante jihadista europeo a colpire i suoi connazionali.

Analizzate insieme, queste quattro macro-tendenze portano il ricercatore Hegghammer a una conclusione pessimista: anziché dare per imminente la scomparsa dello Stato islamico e del jihadismo che vi si ispira, sarebbe bene cominciare ad attrezzarsi per lo scenario peggiore. L'onda lunga provocata dallo tsunami del Califfo.