Il miliardario è tentato dalla corsa alla Casa Bianca. Ma con un handicap: pochi lo conoscono fuori da New York, la città di cui è stato sindaco

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Il conto alla rovescia è cominciato qualche giorno prima delle primarie in Iowa del 1° febbraio, quando il miliardario Michael Bloomberg ha scelto di far conoscere i suoi progetti: presentarsi come indipendente alle presidenziali di novembre.

Pochi giorni per vedere le reazioni, e 48 ore prima delle primarie del New Hampshire dell’8 febbraio, lo stesso Bloomberg ha spiegato il perché della sortita: «Trovo il livello dei discorsi e della discussione penosamente banali, un oltraggio e un insulto verso gli elettori».

Il giudizio di Bloomberg, che in politica c’è stato 12 anni come sindaco di New York e già nel 2008 aveva considerato l’ipotesi di correre per la Casa Bianca, suona come una bocciatura senza appello per i candidati in testa nelle primarie: l’immobiliarista miliardario Donald Trump, che guida i repubblicani con una campagna all’insegna del nazionalismo, del razzismo e della sollecitazione degli istinti peggiori attraverso messaggi di paura contro tutto ciò che non è made in Usa; e il senatore indipendente del Vermont Bernie Sanders, che ha stracciato Hillary Clinton in New Hampshire predicando l’idea di una «rivoluzione politica» contro le oligarchie e Wall Street attraverso una ripresa dell’iniziativa del governo tutta tesa a ridurre le ineguaglianze. Le parole di Bloomberg non mettono alla berlina solo i due front runner, sono un atto di accusa diretto a tutti i candidati dell’establishment che non riescono a superare consensi appena sopra le due cifre.
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Le presidenziali del 2016 offriranno lo spettacolo di una corsa a tre, un democratico, un repubblicano e un indipendente? L’ultima volta fu nel 1996 quando Ross Perot, anche lui uomo d’affari miliardario, corse e portò a casa poco meno del 9 per cento del voto popolare. Adesso, Michael Bloomberg vuol mettere sul tavolo un miliardo di dollari prelevandolo dal suo patrimonio valutato in oltre 39 miliardi per lanciare la sfida. Non ha molto tempo per la decisione finale. Non tanto per gli obblighi di raccogliere le firme in ogni Stato (termine ultimo in 37 dei 50 Stati tra agosto e settembre), quanto per quella che oggi appare la maggiore debolezza dell’ex sindaco: è pressoché sconosciuto fuori da New York e dai principali centri della costa dell’Est.

L’università di Quinnipiac (Connecticut) da molti anni testa gli umori dell’elettorato americano e ha provato a vedere che cosa accadrebbe in una corsa a tre. Bloomberg non andrebbe oltre il 20 per cento dei voti sia se la competizione fosse contro Sanders e Trump, sia contro Sanders e Ted Cruz, il repubblicano meglio piazzato dopo il palazzinaro di New York.

Il dato più interessante di questo primo sondaggio evidenzia che il problema di Bloomberg è appunto il rapporto con gli elettori: uno su due ha dichiarato di non potersi esprimere sull’ex sindaco perché non sa chi sia o non ha elementi di giudizio pur conoscendo il suo nome. Ecco perché il fattore tempo è decisivo per Bloomberg e guardando il calendario delle primarie si capisce che entro fine marzo deve prendere una decisione: a quella data 30 dei 50 Stati avranno già votato e i giochi in casa repubblicana e democratica saranno pressoché fatti.
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Così, Michael Bloomberg a 73 anni, una figlia (Georgina), una fidanzata (Diane Taylor, repubblicana, oggi alla guida di un fondo di investimento, prima controllore delle banche di New York con il governatore George Pataki), una passione intensa per il volo e per il golf, vuole tornare da protagonista sul palcoscenico della politica. Solo perché non gli piacciono gli attuali candidati? O il ritorno agli affari e alla beneficenza come impegno civile lo hanno già annoiato e sente di nuovo bisogno dell’adrenalina del potere che ha provato sedendo sulla poltrona di sindaco di New York, un posto che equivale a governare una nazione di media grandezza?

Dunque, Michael Bloomberg è pronto a lasciare una comoda vita che ha come base il suo palazzetto di fine Diciannovesimo secolo sulle 72esima strada, cento metri da Central Park, e che si snoda tra gli uffici della Bloomberg LP sulla Lexington Avenue, la dimora storica di Londra pagata oltre 26 milioni di dollari, la villa di Bermuda e il Deepdale Golf Club di Long Island, solo 7 minuti di volo con l’elicottero che lui pilota da moltissimi anni.

Ma con quale abito si presenterà agli elettori? A New York ha fatto complessivamente bene, a cominciare dalla gestione del dopo attentato alle Torri Gemelle (giurò da sindaco il 1° gennaio 2002). Il suo approccio è sempre stato più da amministratore delegato di una grande azienda che da politico di razza, ma ha fatto storcere il naso a molti quando ha contraddetto se stesso facendo di tutto perché potesse correre per un terzo mandato da sindaco dopo aver appoggiato anni prima un referendum che poneva come limite due elezioni.

Certo, cambiare idea non è un peccato mortale. Michael Bloomberg lo ha fatto con una certa frequenza. Prima di diventare sindaco della Grande Mela, il suo cuore batteva con il Partito Democratico (era registrato nelle liste elettorali sotto il simbolo dell’asino), ma alle primarie del 2001 di New York si presentò sotto le bandiere del Partito Repubblicano. Poi, a metà del secondo mandato, tra la fine del 2007 e gli inizi del 2008, quando aveva maturato la decisione di cambiare le regole per correre una terza volta, entrò in conflitto con i conservatori e si iscrisse nel registro elettorale come indipendente, casacca con cui restò a City Hall fino alla fine del 2013.

Così si presenterà davanti agli elettori se correrà per la Casa Bianca. Anticipazioni sul programma politico elettorale non ce ne sono ancora. Allora bisogna rifarsi alla sua storia per immaginare i suoi cavalli di battaglia. In modo semplice ma preciso, Michael Bloomberg è classificabile come un politico il cui cuore batte a sinistra in tema di diritti e di libertà, mentre batte a destra per tutto quanto riguarda il portafoglio. Dunque, sarà il mix diritti-doveri a misurare la capacità di acchiappare i voti dei repubblicani, dei democratici e degli indipendenti creando quella maggioranza che serve a diventare presidente.

Questa sua libertà intellettuale può trasformarsi nell’urna in un boomerang. I repubblicani potrebbero non votarlo perché è alla testa di una fondazione (Everytown for Gun Safety) che vuole limitare l’accesso alle armi da fuoco, per il suo sì ai matrimoni tra appartenenti allo stesso sesso, per la sua adesione alle campagne per la riduzione delle emissioni di Co2, per l’idea di istituire una tassa per far entrare le auto nelle città più congestionate, perché ritiene che vada trovata una soluzione per i milioni di immigrati clandestini e che i muri alle frontiere sono inutili, in quanto nei fenomeni migratori vince la forza della domanda e dell’offerta di lavoro.

I democratici potrebbero voltargli le spalle perché ritiene un obbligo avere bilanci in ordine, perché è contro la spesa pubblica sostenuta dalla creazione di debiti per le generazioni future, perché trova giusto pagare fior di bonus a manager e capi azienda, perché i dazi doganali non potranno mai fermare l’economia globale e ridare i posti di lavoro perduti, perché nel 2003 sostenne con forza la disastrosa guerra in Iraq di George W. Bush e l’anno successivo lo appoggiò per la rielezione.

È un candidato all’insegna del pragmatismo e lontano dall’approccio ideologico che ha offerto l’inizio della corsa alla Casa Bianca. Sicuramente piacerà agli indipendenti, ma il loro numero non è tale da portarlo nello Studio Ovale. Il suo arrivo sulla scena renderà la campagna 2016 interessante, tanto da poter immaginare uno scenario da incubo della corsa a tre: nessuno dei candidati raccoglie la metà più uno dei voti elettorali (diversi dal voto popolare) e così a decidere il 45esimo presidente Usa sarà la House of Representatives dove la maggioranza è repubblicana.