Sarebbe una missione impopolare, col rischio di perdite ingenti per le nostre truppe. E, nonostante la propaganda, la guida sarebbe anglo-francese. Per questo Matteo Renzi ha detto no
Perché Matteo Renzi ha infine deciso - dopo qualche esitazione, diverse improvvide dichiarazioni belliciste di esponenti del governo ed esplicite pressioni americane - di non invadere di nuovo la Libia? Le ragioni sono almeno tre.
Primo, sarebbe stata un’operazione impopolare. La maggioranza dell’opinione pubblica non avrebbe capito perché rimettere stivali e cingoli nelle sabbie libiche, addirittura schierando cinquemila uomini da prima linea - che peraltro nemmeno avremmo, se non sguarnendo i contingenti in Libano e in Afghanistan, o rinunciando alla missione in Iraq per proteggere la riparazione della diga di Mosul. Ogni leader calcola le sue iniziative di politica estera anzitutto in base al consenso interno. Renzi non fa eccezione. Inoltre, la spedizione avrebbe ulteriormente diviso il suo stesso partito, ciò di cui non sente il bisogno.
Secondo, entrare nella mischia libica nel momento di massimo caos avrebbe esposto i nostri militari a rischi considerevoli e a perdite probabilmente immediate, forse pesanti. Allo stesso tempo, il solo fatto di inviare nostri soldati in Libia avrebbe di molto accresciuto la minaccia di attentati in Italia, esibiti dallo Stato islamico o da qualche milizia locale come rappresaglia contro i “neocrociati” e i “neocolonialisti” tricolori. Ciò avrebbe reso ancora più impopolare la missione, fino a mettere a rischio la stessa stabilità del governo. Riportare i ragazzi a casa sotto la pressione popolare e con la coda fra le gambe qualche settimana dopo averli spediti in teatro sarebbe stato uno smacco insopportabile.
Terzo, fanfara propagandistica sulla “leadership italiana” a parte, Roma avrebbe avuto un ruolo minore nel contesto di una missione internazionale di fatto guidata da francesi e inglesi con la supervisione americana. Tanto più che intelligence e forze speciali di questi tre Paesi già agiscono sottotraccia in Libia. Per difendere i loro interessi geopolitici ed energetici, che non sono i nostri. Sarebbe stato davvero beffardo morire in Libia per la maggior gloria – e i solidi interessi - di Hollande o Cameron.
Certo, la pianificazione militare italiana resta a uno stadio avanzato, contemplando tutte le ipotesi: dall’intervento d’impronta molto leggera alla guerra a tutto tondo. E non si può escludere che in futuro militari italiani scendano a sud del Canale di Sicilia. Ma a consolidare un equilibrio più o meno (in)stabile, non a finire in una guerra civile in cui milizie locali, crimine organizzato e jihadisti intrecciano duelli infiniti, senza chiare linee del fronte e radicate leadership politiche. Nel frattempo, ci limiteremo a una presenza di intelligence e di qualche nucleo speciale per interventi d’emergenza, mirati, per la protezione dei nostri asset energetici, soprattutto in Tripolitania, e dei nostri connazionali.
La situazione in Libia è più caotica che mai. Il presunto gabinetto di unità nazionale resta un governicchio fantoccio in esilio. Il premier Serraj e i suoi ministri non potrebbero sbarcare a Tripoli se non a rischio della pelle. D’altronde, immaginare di costituire un governo di unità nazionale in assenza di una nazione e in presenza di centinaia di milizie armate ed aggressive appare operazione eccessivamente acrobatica. Più un esercizio diplomatico a perdere che un vero progetto strategico, capace di incardinare finalmente sul terreno un’entità politica libica più o meno credibile.
Restano sul terreno due pseudogoverni. Quello di Tobruk, in Cirenaica, internazionalmente riconosciuto, che poggia in parte sulle milizie del generale Khalifa Haftar, sostenuto dall’Egitto, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Haftar si è autointitolato la “Operazione Dignità” per sconfiggere il “terrorismo”, naturalmente essendo lui a decidere chi sia il terrorista. Recentemente le sue truppe, composte in buona parte da civili armati, hanno riconquistato quasi tutta Bengasi, grazie alle truppe speciali francesi che le hanno appoggiate.
C’è poi il governo di Tripoli, sede del Congresso nazionale generale, di tonalità islamista. Come il suo gemello di Tobruk, controlla a stento le stanze in cui è installato. In Tripolitania il soggetto militarmente più forte restano le milizie della città di Misurata che agiscono sulla base dei propri interessi, non coincidenti con quelli del governicchio ospitato nell’ex capitale. Nelle ultime settimane il governo italiano ha intensificato i rapporti informali con Misurata e con le milizie tripolitane in genere, anche perché i nostri maggiori interessi energetici (Eni) sono in quella regione.
Infine, lo Stato islamico. Il marchio del califfato si è radicato nella zona di Sirte, a cavallo della incerta frontiera fra Tripolitania e Cirenaica. Siamo nella terra di elezione del clan Gheddafi. Infatti molti aderenti a questa organizzazione sono ex gheddafiani in cerca di un ruolo, dopo che una legge ha almeno teoricamente escluso dalle funzioni pubbliche coloro che a torto o a ragione sono considerati elementi dello scorso regime. Colpisce l’analogia con il caso iracheno: lì fu la decisione americana di sciogliere le Forze armate saddamiane a incanalare verso la resistenza armata un cospicuo numero di ex militari, oggi confluiti nello Stato islamico. Oltre ai nostalgici del Colonnello, rapidamente indottrinati al verbo jihadista, fra i circa tre-quattro mila combattenti del “califfo” si contano molti stranieri provenienti da Tunisia, Algeria, Egitto, Sudan e dallo stesso territorio siro-iracheno dove sventola la bandiera nera del califfo. E diversi elementi del gruppo jihadista Ansar al-Islam, che non hanno cambiato idea, solo marchio, perché oggi quello di al-Baghdadi è il più attraente.
La presenza informale occidentale in Libia, e l’eventuale intervento aperto su scala più vasta, se mai ci sarà, sono e saranno legittimati con la necessità di contenere e poi eliminare lo Stato islamico in ciò che resta della Libia. L’effetto di un’invasione franco-britannica-italiana o comunque d’impronta occidentale della ex Libia rischierebbe di produrre l’effetto opposto. Farebbe probabilmente dei seguaci del “califfo” i nuovi eroi della resistenza anticoloniale. Con il risultato di radunare intorno allo Stato islamico le più diverse milizie locali, decise a respingere l’invasione. Se anche Sirte fosse emancipata dalla morsa jihadista, il mostro potrebbe facilmente riapparire altrove. Finora gli unici a sconfiggere lo Stato islamico sul suolo libico sono stati gli abitanti di Derna, che ne hanno messo in fuga le milizie liberando la città dall’oppressione dei fanatici “califfali”.
Lo Stato islamico è un mostro provvidenziale che serve a giustificare con la lotta al terrorismo gli obiettivi ben diversi di chi proclama di combatterlo. Per quanto riguarda italiani, britannici e francesi, si tratta di proteggere pozzi e asset petroliferi, che stanno arrugginendo o sono stati danneggiati dalle milizie locali, seguaci del califfo in testa. I quali hanno come priorità impedire la ripresa economica e quindi la ristabilizzazione geopolitica. Ciò che prevede la messa fuori gioco di gran parte del sistema di produzione e di commercializzazione del petrolio libico, attraente per la sua qualità e per i costi relativamente modesti di estrazione. Risultato per ora raggiunto, visto che sono ormai meno di 200mila i barili esportati al giorno. Sicché i soldi a disposizione delle uniche entità centrali ancora esistenti – compagnia petrolifera nazionale (in via di divisione fra Est e Ovest), banca centrale e fondo di investimento libico – stanno cominciando a scarseggiare. E con essi la liquidità distribuita ai funzionari di uno Stato inesistente. Se la fonte energetica fosse disseccata, quello che era il più ricco Paese africano dovrebbe fare i conti con la fame. E con le rivolte dei disperati che ne conseguirebbero, accompagnate da nuove pressioni migratorie.
Non c’è soluzione definitiva, lineare per la gravissima crisi libica. Ed è probabile che la presunta soluzione militare sotto forma di mini-“sbarco in Normandia” non avrebbe migliorato lo stato di salute del paziente inglese. Prepariamoci dunque a una lunga fase di maratone diplomatiche, di “guerra segreta” ormai nota a tutti, a colpi di intelligence, droni e forze speciali. In attesa che le linee di frammentazione di quell’enorme spazio siano sufficientemente disegnate per potervi radicare poteri locali abbastanza stabili, forse conservando una pallide cornice pseudo-unitaria per mascherare l’inesistenza della Libia. E il fallimento di noi europei.