Ecco i bunker del Cairo usati dagli agenti dei servizi segreti egiziani per seviziare e uccidere dissidenti e testimoni. Da una ?di queste stanze è probabilmente passato Giulio
L’inferno è qua. È nei palazzoni del regime che circondano la città. È nelle ville apparentemente abbandonate della periferia. È nei bunker dove i dannati vengono dimenticati. È nelle celle dove vengono sepolti i vivi. L’inferno è nel Cairo di al Sisi. È qui che Giulio Regeni ha passato gli ultimi giorni della sua vita. È da qui che viene «tutto il male del mondo» che la mamma ha visto sul suo viso. Prima di lui ce ne sono stati tanti. E dopo di lui ne sono arrivati altri. Pochissimi lo possono raccontare. «Mi stupisce che resistiate così a lungo. Questa prigione è costruita per fare in modo che chi ci entra o muoia o perda la testa». Sono parole del generale Mohamed Elfaham, responsabile della prigione Al Aqrab (lo Scorpione) a sud del Cairo. Lo diceva ai prigionieri che lo ricordano come uno dei più clementi.
A raccontarlo è il ricercatore Haitham Ghoniem. Ha passato anni a raccogliere testimonianze di chi ci è finito in quei luoghi dell’orrore. A partire dalla sua. Solo dopo il caso Regeni ha però trovato il coraggio di raccontarle al mondo. Ha sempre temuto per la sua vita. E per quella delle sue fonti. «Ho reso tutto pubblico nella speranza di poter riuscire finalmente a dormire», spiega sul suo blog. «Ogni volta che chiudo gli occhi sento le urla delle torture». [[ge:rep-locali:espresso:285193889]] Nel 2015 sono sparite mediamente tre persone al giorno. Portate via dalla polizia senza lasciare tracce. Non risultano detenute da nessuna parte. Semplicemente sparite. Inutile cercarle nei vari commissariati. La risposta è una ed è sempre quella: «Non è qui, non l’abbiamo preso noi. Provate a chiedere all’altro commissariato».
Qualche giorno dopo vengono ritrovati i loro corpi scaricati sul ciglio della strada. Un modus operandi collaudato e perfezionato negli anni. Le versioni ufficiali sono sempre quelle. Le abbiamo sentite anche nel caso Regeni: l’incidente stradale, l’aggressione criminale ed eventualmente la pista terroristica o lo scontro a fuoco con le forze dell’ordine, come nel caso della fantomatica banda dei sequestratori. Le indagini sono affidate ai colpevoli. Così giustizia non è mai fatta.
«Mi hanno portato via da casa in piena notte, davanti agli occhi dei miei genitori e di mia sorella», racconta Ghoniem. «Sono finito in una villa che pensavo fosse abbandonata. Ci passavo davanti ogni giorno. In realtà era una base segreta per gli interrogatori».
Li chiamano interrogatori ma sono solo torture. «Non c’è nessun documento in mano alla sicurezza interna che dimostri che tu sia nostro prigioniero. La tua famiglia non potrà provare nulla e se volessimo tenerti nascosto potremmo farlo per tutta la vita. Nessuno ti troverebbe mai. Se ti volessimo uccidere, lo faremmo e ti seppelliremmo da ignoto in mezzo al nulla. Nessuno vedrebbe mai la tua tomba. Quindi se ti comporti bene ti faremo uscire e la tua famiglia ti potrà rivedere. Altrimenti, sai cosa succederà».
Così si è presentato l’ufficiale che l’avrebbe seviziato per i sei giorni successivi. E non l’hai mai potuto vedere in faccia. Di lui ricorda solo la voce. «Mi hanno spogliato, l’unica cosa che mi hanno sempre coperto sono stati gli occhi. Mi hanno tenuto in una stanza gelata». Il sesto giorno l’ufficiale si è presentato per scusarsi: «L’abbiamo fatto per il nostro Paese, per l’Egitto. Ti liberiamo ma se vai in piazza a protestare o riveli qualcosa a qualcuno, sai già come finirà». Ghoniem ha chiesto di un suo compagno di cella, un anziano che gestiva una lavanderia e che è finito in prigione solo perché si è trovato in mezzo a un blitz della polizia. «È vero che è ancora da noi. Mi era completamente passato di mente», ha risposto l’ufficiale. L’avevano dimenticato in isolamento.
Lo stesso giorno in cui spariva Giulio, il 25 gennaio 2016, è ricomparso il corpo di un altro giovane. Di Mohamed Hamdan Mohamed Ali, portato via dai servizi di sicurezza il 10 gennaio. I familiari ne hanno immediatamente denunciato la sparizione. Due settimane dopo, il suo corpo era all’obitorio, crivellato di colpi ma pieno anche di bruciature di sigarette e di tagli. Per gli Interni è stato ucciso durante uno scontro con i militari.
Scenario identico anche per Ahmed Ismail. Fermato il 20 gennaio e riconsegnato cadavere il 31 con un colpo in testa che però non ha coperto le tracce delle sevizie. Il 3 marzo del 2014 Mohamed Wajih è stato portato via dalla sede della sua azienda. In realtà la polizia cercava il fratello ma quel giorno era assente. Non poteva tornare indietro a mani vuote. I familiari lo hanno potuto visitare solo nove giorni dopo. «Era ridotto così male che non poteva darmi la mano per il saluto. Non riusciva né a camminare né a sedersi. Aveva diverse costole rotte. Contusioni su tutto il corpo. Lo hanno tenuto legato per cinque giorni di seguito». Nemmeno il penitenziario l’ha voluto ricevere. Poteva morire da un momento all’altro. «Non è più tornato quello di prima». Nessuno torna più quello di prima. In tanti finiscono negli ospedali psichiatrici. Quando il corpo resiste, cede la mente.
Poi c’è l’omicidio fotocopia del caso Regeni: Mohamed al Jundi, attivista di 28 anni, sparito da piazza Tahrir il 25 gennaio del 2013, tre anni esatti prima di Giulio. Diversi testimoni hanno visto i militari arrestarlo. È stato abbandonato morente sulla strada tre giorni dopo. È morto in ospedale il 4 febbraio. Per le autorità si è trattato di un incidente d’auto. Nonostante avesse sul corpo il manuale delle torture.
Nei racconti dei soprusi ci sono tutti quei dettagli confermati dall’autopsia effettuata sul corpo del ricercatore italiano. Gli arrestati vengono legati per le mani e appesi al muro. Come animali in attesa di essere macellati. Vengono sottoposti a scosse elettriche in tanti modi differenti: a volte nelle zone intime, altre sulla testa, altre ancora attraverso i secchi d’acqua o i materassi in rete elettrificata. Vengono strappate loro le unghie delle mani e dei piedi.
Le bastonate per loro non sono nemmeno da considerare maltrattamento. È l’unico linguaggio con cui gli aguzzini comunicano con i detenuti. I militari non si limitano alle violenze fisiche ma si concentrano anche sulle umiliazioni. Le vittime vengono completamente denudate e legate con la loro biancheria intima. Vengono costrette a stare in mezzo agli altri in queste condizioni.
Non mancano i casi di abusi sessuali. «Quando entri qua, nulla di tuo è inviolabile. Tu sei nostro e possiamo fare di te ciò che vogliamo», lo racconta un ragazzino che ha dovuto passare in quell’inferno sei giorni prima di finire davanti a un procuratore per essere accusato di qualcosa che non ha fatto. Ma è meglio essere accusati e condannati ingiustamente piuttosto che passare la vita in un buco, dimenticati dal mondo.