16 maggio 1966. Mao Zedong, quasi 73enne, emana una circolare in cui punta l’indice sulla “borghesizzazione” nemmeno troppo strisciante in atto nel partito comunista, e sui rischi sempre più concreti di una “deriva revisionistica e controrivoluzionaria” come si usava dire al tempo. È l’inizio della Rivoluzione Culturale cinese, che durerà fino alla scomparsa del “Grande Timoniere”, dieci anni dopo. Il tempo di liberarsi dei suoi principali antagonisti politici e di portare a sublimazione il culto della (sua) personalità, cristallizzato in quelle centinaia di milioni di Libretti Rossi agitati in faccia alle “vecchie idee, vecchi costumi, vecchie abitudini e vecchia cultura”.
L’anziano leader mobilitò le masse giovanili in ogni scuola e università. Gli accademici, gli intellettuali e i funzionari “rammolliti” furono costretti all’esilio e a inenarrabili autodafé. L’autocritica e l’autocensura diventarono la moneta corrente. In tanti persero la vita durante quel nefasto decennio, e soprattutto la dignità.
50 anni dopo, lunedì 16 maggio 2016. Non c’è traccia, sui media cinesi, della ricorrenza. La Rivoluzione Culturale non trova spazio stamattina nei più venduti quotidiani cartacei della superpotenza socialista. Solo a Hong Kong, qua e là, se ne parla, anche se lo speciale televisivo previsto da Phoenix Television è stato poi bloccato. Silenzio più assoluto da parte degli organi di informazione del partito-Stato. I mezzi di comunicazione preferiscono attardarsi sui contenziosi geopolitici relativi al Mar cinese meridionale, e su altre questioni endogene, magari di costume. Nessun evento o cerimonia è in programma a Pechino e dintorni. Come se questa psicodrammatica e sanguinosa pagina della storia contemporanea non si fosse mai consumata.
Censura manifesta o damnatio memoriae, come per Piazza Tienanmen? Sul social network più in voga in Cina (non che ci sia scelta), Weibo, un mix di Twitter e Facebook con oltre 500 milioni di iscritti e col monitoraggio occhiuto di Stato, i tag che rimandano alla “Rivoluzione” del 1966 non sono stati interdetti. Ma un simil-hashtag libero non può far primavera. Andiamo sull’edizione online del quotidiano Renming Ribao (People’s Daily), fondato nel 1948 e organo ufficiale del comitato centrale del PCC. In apertura pure qui la querelle sul Mar cinese del sud, e a seguire: il varo della linea ferroviaria diretta più lunga della Cina; un servizio su una giovane donna che allatta un bambino abbandonato (elogiata come “la madre dal cuore più gentile”); un articolo sul cittadino patriottico che ha deciso di sottoporsi, l’anno prossimo, al trapianto completo della testa; la visita nella Repubblica Ceca del presidente Xi Jinping.
Passiamo a Zhongguo qingnian bao (China Youth Daily), giornale gestito dalla Lega della gioventù comunista fin dal 1951. Qui si farà sicuramente parola scritta dell’anniversario, visto che coinvolse tanti ragazzi di allora. E invece niente: in primo piano ancora il Mare cinese meridionale e la connessa disputa tra Stati Uniti e governo di Pechino, e non manca un pezzo su un panda col cappello di paglia viralissimo sui social locali. Saltiamo alla versione digitale di Guangming Ribao (Guangming Daily), stampato dal 1949 in qualità di organo ufficiale della Conferenza politica consultiva cinese (un'organizzazione di tutti i partiti democratici sotto l'egida del PCC). Clicchiamo invano: il palinsesto di notizie odierne prevede infatti un arioso ragionamento del presidente Xi Jinping sulla nuova normalità; i nuovi standard annunciati dalla Procura Suprema in merito ai risarcimenti statali; l’ottimizzazione strutturale dell’economia cinese, e uno scoop sui seicento acri di terreno garantiti a 592 contee- chiave. Un trafiletto, almeno, sulla Rivoluzione Culturale? Nemmeno per idea: se ne riparlerà, chissà, nel 2066, per il centenario.
Il remake di un film già visto. L’amnesia mediatica agì infatti sistematicamente anche dieci anni fa, giornate del quarantennale della “rivoluzione” dimenticata. Così come l’oblio della classe dirigente cinese, il divieto rigoroso di qualsivoglia commemorazione ufficiale. Diversi membri del partito avevano rilanciato l’ipotesi di un risarcimento economico delle vittime e prospettato l’istituzione di mausolei e monumenti alla memoria: ma il loro cahier venne trattato alla stregua della carta straccia. Si tennero solo un convegno clandestino nella città di Mingyun, al quale prese parte poco più di una dozzina di storici e docenti in odore di moto carbonaro, e una conferenza all’Università di New York intitolata "Cultural devolution Historical Truth and Collective Memory”. Gli studiosi cinesi invitati, alla fine, non si presentarono. Troppo grandi i pericoli di un arresto o di ritorsioni sul lavoro. Troppo fresche ancora sulla propria pelle le ferite dell’ultima rivoluzione di Mao, che doveva rigenerare il mondo.
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16 maggio, 2016Non c’è traccia, sui media cinesi, della ricorrenza, né sui giornali, né in tv. Silenzio più assoluto da parte degli organi di informazione del partito-Stato. Nessun evento o commemorazione in programma. Come se questa psicodrammatica e sanguinosa pagina della storia contemporanea non si fosse mai consumata
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