Questione palestinese, la repressione di Abu Mazen e la disfatta della sinistra
Dissidenti epurati, sindacati banditi. E stampa addomesticata. Il rais Mahmoud Abbas esercita il potere con pugno di ferro. Al contrario del predecessore Arafat
Nell’asfissiante stallo creato del vacante processo di pace, segnato dall’incessante aumento delle colonie israeliane e dai sempre più sporadici attacchi della frustrata generazione post Oslo, la società palestinese deve fare i conti con due elementi ormai assodati: la crescente deriva autoritaria dell’Anp (Autorità palestinese) e la quasi definitiva dipartita della sinistra locale.
La testimonianza della prima è evidente sui siti della poca stampa non allineata ed è resa plasticamente dalla capillare repressione di ogni voce fuori dal coro. Arresti ingiustificati di attivisti e studenti universitari che spesso utilizzano Facebook come piattaforma di dissenso, ma anche attacchi a noti esponenti politici e della società civile. La seconda è riconducibile all’abbandono, da parte della sinistra, della lotta sociale come premessa per la liberazione dall’occupazione israeliana, a tacito favore di politiche neoliberiste e dell’economia parallela creata della cooperazione internazionale.
“Se si osserva da vicino il funzionamento della politica palestinese, possiamo riscontrare una deriva autoritaria senza precedenti” spiega l’analista palestinese Tariq Dana all’Espresso durante un colloquio all’università di Birzeit, dove insegna Studi Internazionali. “L’autoritarismo del presidente Abu Mazen è di gran lunga superiore a quello esercitato in passato da Yasser Arafat”. Durante la leadership dello storico Rais, spiega il sociologo, il dissenso era molto più tollerato, le critiche alle politiche del presidente erano all’ordine del giorno e spesso la popolazione scendeva in strada per protestare contro l’andamento dei negoziati con Israele o contro le forze di sicurezza palestinesi.
“Da allora la struttura dell’Anp è cambiata radicalmente, trasformandosi in un’organizzazione al servizio delle élites palestinesi o, nel caso del coordinamento alla sicurezza con Israele, in uno strumento funzionale alla forza occupante”. Secondo Dana, che oltre ad aver conseguito un master in Affari Umanitari all’università Roma ha ottenuto un dottorato in Politica e Diritti Umani presso la Scuola S. Anna di Pisa, il grimaldello utilizzato da Abu Mazen per controllare il dissenso è spesso quello economico.
Un esempio di questa forma di pressione politica è stato il congelamento nel 2015 dei fondi delle Ong/fondazioni dell’ex primo ministro Salam Fayyad e di Yasser Abed Rabbo, l’ex Segretario Generale dell’Olp e membro di spicco della leadership palestinese. Quest’ultimo è stato accantonato politicamente dopo anni di servizio e sostituito con lo storico capo negoziatore Saeb Erekat, apparentemente più affine alla gestione di Abu Mazen. Secondo alcune fonti all’interno dell’Olp, entrambi stavano intrattenendo “relazioni pericolose” con gli Emirati Arabi Uniti, che a oggi sono il maggiore sponsor del principale avversario politico di Abu Mazen, l’ostracizzato ex capo della sicurezza dell’Anp a Gaza Mohammed Dahlan.
Nell’aprile scorso, la cancellazione dei fondi destinati al Fronte popolare (FPLP) e del Fronte democratico (FDLP), a causa di frizioni con la presidenza, ha fatto gridare allo scandalo. Il presidente controlla de facto il Palestinian National Fund, l’organismo che finanzia i partiti politici palestinesi, il che gli fornisce una formidabile arma di controllo del dissenso. Un altro controverso caso riguarda la recente defenestrazione politica del governatore di Nablus Akram Rajoub, cugino di Jibril, l’ex uomo forte di Yasser Arafat riciclatosi nella Federcalcio palestinese e nemico giurato di Abu Mazen. Il governatore è stato licenziato su due piedi dopo un post su Facebook in cui accusava il presidente di proseguire, contro il volere popolare, la controversa collaborazione con le forze di sicurezza israeliane. Secondo i sondaggi del PCPRS, i tre quarti dei palestinesi si oppongono a tale cooperazione.
Ma il tentativo del presidente palestinese di consolidare la propria autorità si declina anche attraverso strumenti giuridicoistituzionali. La stampa locale ha recentemente riportato la creazione della nuova corte costituzionale palestinese, composta da nove giudici –tutti scelti dalla presidenza con lo scopo di approvare o cassare i numerosi decreti legge di Abu Mazen, dato che il parlamento palestinese, a maggioranza Hamas, non lavora dal 2007, anno dello scisma dopo la vittoria delle elezioni del gruppo militante. Le modalità e la composizione del nuovo corpo giuridico, secondo alcuni giornalisti e analisti locali, lasciano trasparire l’intenzione dell’ottuagenario Abu Mazen di voler rinsaldare ulteriormente il proprio potere e di non aver, almeno in tempi brevi, nessuna intenzione di schiodarsi dalla poltrona.
Non solo repressione contro i partiti e uomini politici avversari però, anche contro la società civile, soprattutto le rappresentanze sindacali. Le forze palestinesi hanno più di una volta arrestato, se pur temporaneamente, il segretario generale del sindacato dei dipendenti pubblici Bassam Zakarneh durante la recente serie di scioperi per il rinnovo del contratto degli statali. Il sindacato, che in teoria rappresenta più di 160.000 lavoratori è tuttora considerato illegale dall’Anp, a seguito della decisione di un comitato istituito dallo stesso Abu Mazen nel 2012.
Il 18 febbraio scorso, le forze palestinesi hanno arrestato a Ramallah 20 docenti e 2 presidi durante una manifestazione di 20.000 insegnanti che protestavano per le promesse non mantenute dal governo sull’aumento dei salari. Oltre all’utilizzo di agenti antisommossa (addestrati tra gli altri anche dall’Italia), le forze di sicurezza palestinesi hanno istituito posti di blocco per impedire ai manifestanti di riunirsi. Alcuni insegnanti hanno sostenuto di essere stati minacciati dalla polizia, accusati di essere “agenti di Israele” e cospirare contro l’Autorità.
La stretta di Abu Mazen sulla stampa e sui blogger indipendenti o vicini ad Hamas è stata recentemente evidenziata dal rapporto del Media Freedom Index, dove si sottolinea che anche se la stragrande maggioranza delle violazioni contro i giornalisti palestinesi è perpetrata dalle forze israeliane, sono in grande crescita anche quelle delle forze palestinesi, circa 116 casi solo nel 2015 secondo MADA (The Palestinian Center for Development and Media Freedoms). “Questo tratto autoritario” spiega Dana “è molto simile, con le dovute differenze, a quello fascista nell’Italia degli anni trenta, dove le corporazioni d’interessi vicine al potere erano tutelate e quelle avverse venivano violentemente attaccate”.
In questa capillare repressione del dissenso, la sinistra dov’è? “Le organizzazioni di base sono scomparse e quelle sopravvissute sono entrate a far parte dell’universo delle Ong” spiega Dana “sono diventate elitiste: invece di essere portavoce della base, implementano l’agenda dei donatori trasmettendo valori neocoloniali, sostenendo un approccio apolitico piuttosto che la politicizzazione della lotta sociale”.
La crisi dei partiti della sinistra palestinese, Fronte popolare (PFLP), Fronte democratico (FDLP) e Partito popolare (PPP), è iniziata, come nel resto del mondo, con la caduta dell’Unione Sovietica ed ha continuato a galoppare fino ai giorni nostri. Con la creazione dell’Autorità palestinese all’interno degli Accordi Oslo nella metà degli anni ’90, i partiti della sinistra si sono trovati ad un bivio. Sostenere l’accordo o boicottarlo come Hamas. La sinistra scelse una terza via: boicottare formalmente Oslo, ma continuare a far parte dei giochi e ricevere le ingenti donazioni della comunità internazionale. Gli Accordi hanno messo fine anche al braccio armato di questi partiti che negli anni 60’ e 70’ furono protagonisti di spettacolari operazioni e atti di terrorismo- erodendone ulteriormente la componente rivoluzionaria.
Le ong della sinistra, molte delle quali stimabilissime AlHaq che documenta le violazioni dei diritti umani palestinesi da parte di Israele e Addameer che fornisce assistenza legale ai detenuti nelle carceri israeliane ne sono alcuni esempi sono legate a doppio filo con l’agenda dei donatori europei. Pur svolgendo un egregio lavoro, hanno di fatto istituzionalizzato e imbrigliato i partiti della sinistra tagliando fuori la propria base. “La sinistra” conclude Dana “ha smesso di parlare la lingua della gente, ha virato su di un approccio riformista anziché rivoluzionario, abbandonando la lotta di classe e l’ideologia: è diventata ostaggio della divisione tra Hamas e Fatah”.
In un momento in cui le politiche neoliberiste introdotte dall’ex membro del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ed ex primo ministro Salam Fayyad fortemente volute da USA e UE e in linea con la “pace economica” di Netanyahu la fanno da padrona, la critica sociale è completamente assente, anzi, la sinistra è spesso collusa.
Oltre alla speculazione edilizia cavalcata dai palazzinari vicini all’Anp (in Cisgiordania ci sarebbero quasi 30.000 appartamenti sfitti), alla crescita esponenziale del credito al consumo il 70% dei dipendenti statali sarebbe fortemente indebitato e più in generale in un momento in cui la rincorsa al consumismo, guidata dai nouveaux riches all’interno e vicini all’Autorità, consolida lo status quo, la sinistra tace. L’ingiustizia sociale creata dal modello neoliberista si fa sempre più profonda, contrapponendo i piccoli centri e i campi profughi all’élite di Ramallah. La nuova realtà, ha spazzato via quel che resta dell’approccio radicale dei gruppi della sinistra palestinese. Della quale ormai, forse, non restano che le belle kufyeh rosse.