Le verità che potrebbero emergere da un eventuale accesso dei familiari ad almeno parte dei file americani sull'operazione fornirebbero l'occasione per un dibattito pubblico sui progetti degli Stati Uniti per la base di Sigonella
L'avevano annunciato ufficialmente subito dopo che il presidente Barack Obama in persona aveva chiesto scusa alla famiglia di Giovanni Lo Porto e all'Italia, ma per oltre un anno a quell'impegno preso davanti al mondo intero non era seguito alcun gesto concreto da parte degli Stati Uniti. Ora però il governo americano ha iniziato le trattative con i familiari di Lo Porto, l'operatore umanitario rapito in Pakistan nel 2012 da un gruppo terrorista e poi ucciso da un drone americano in circostanze completamente oscure.
L'Espresso ha appreso che i contatti tra la famiglia e il governo Usa sono recenti. Nel marzo scorso i Lo Porto avevano depositato una nota ufficiale, corredata dal parere di due professori di diritto internazionale, in cui chiedevano di accedere sia ai documenti sull'operazione in cui era rimasto ucciso Giovanni sia ai file sulle policy Usa in materia di droni e, contemporaneamente, chiedevano di tener fede all'impegno di risarcimento economico.
A poche settimane dall'inizio delle trattative non è chiaro cosa i Lo Porto otterranno davvero da Washington, l'unica cosa certa è che, mentre l'avvocato Andrea Saccucci, che rappresenta la famiglia, non ha voluto assolutamente confermare o smentire l'avvio dei contatti, il Dipartimento di Stato, contattato da l'Espresso, pur non rispondendo alle nostre domande sulle negoziazioni in corso, non le ha smentite e un suo funzionario ha replicato alla nostra richiesta di informazioni con un commento all'insegna del “careful wording”: «Come abbiamo riconosciuto l'anno scorso», ci ha dichiarato, «un'operazione antiterrorismo del governo degli Stati Uniti ha portato all'uccisione di due ostaggi innocenti nelle mani di al-Qaida: il dottor Warren Weinstein, un cittadino americano tenuto in ostaggio da al-Qaida fin dal 2011, e Giovanni Lo Porto, un individuo di nazionalità italiana in mano ad al-Qaida fin dal 2012. Quando abbiamo annunciato la morte del dottor Weinstein e del signor Lo Porto, abbiamo dichiarato che gli Stati Uniti avrebbero riconosciuto ad entrambe le famiglie un pagamento come forma di cordoglio [condolence payment]. Abbiamo fatto ciò sapendo che nessuna cifra in dollari potrebbe mai riportare in vita i loro cari. Per rispetto della privacy di queste famiglie - e poiché si tratta un procedimento in corso - non abbiamo altri dettagli».
Il funzionario del Dipartimento di Stato ha poi fatto presente a l'Espresso che gli Usa «hanno lanciato un'accurata inchiesta indipendente sull'operazione per capire di più e in modo completo i fattori specifici che hanno portato a questa tragedia e per capire se un qualsiasi cambiamento nelle procedure e nei processi alla base della nostra selezione degli obiettivi possa evitare il ripetersi di queste situazioni. Al momento non abbiamo alcun aggiornamento o dettagli ulteriori».
Le trattative in corso avvengono a livello di avvocati e a rappresentare gli interessi degli Stati Uniti è lo studio legale Cosmelli, con sede a Roma e a Milano, di cui il governo Usa è un cliente di lungo corso. Alla nostra richiesta di sapere se davvero la famiglia Lo Porto avrà l'opportunità di accedere alle informazioni sull'attacco in cui è rimasto ucciso Giovanni, il Dipartimento di Stato non ha voluto rispondere né ha voluto chiarire se l'accordo finale - ammesso che ci si arrivi - verrà schermato con una clausola di confidenzialità che impedirà alla famiglia di divulgarne i contenuti.
Ad oggi, l'attacco in cui Lo Porto e Weinstein sono rimasti uccisi rimane avvolto nella “nebbia della guerra”, una nebbia che per le operazioni militari che coinvolgono i droni è particolarmente impenetrabile: tutti i dati che abbiamo sugli obiettivi e sulle “vittime collaterali” sono pure stime, redatte sulla base di lavori d'inchiesta giornalistica, come quella del “Bureau of Investigative Journalism” di Londra, che da anni cerca di ricostruire la mappa delle operazioni e di dare un nome ai morti.
In mancanza di informazioni così basilari è impossibile giudicare con criteri oggettivi l'efficacia del programma e la sua legalità dal punto di vista delle leggi internazionale né è possibile ricostruire almeno quante siano le famiglie delle “vittime collaterali” risarcite dal governo Usa. Il tedesco Wolfgang Kaleck, segretario generale dello “European Center for Constitutional and Human Rights” (Ecchr) con sede a Berlino e che assiste legalmente alcune di quelle famiglie, spiega a l'Espresso che «esistono pochi esempi in cui gli Usa hanno risarcito i familiari ex gratia», ovvero senza riconoscere alcuna responsabilità legale. «Nella stragrande maggioranza dei casi», ci spiega Kaleck, «l'identità delle vittime o rimane sconosciuta o si tratta di persone che non hanno accesso a un sistema di negoziazione con gli Usa che permetta loro di chiedere un risarcimento».
Il giornalista inglese Jack Serle che è parte del team del Bureau di Londra che indaga sui droni spiega a l'Espresso che di norma il governo americano non usa il termine risarcimento, ma «preferisce l'espressione “condolence payment”, con cui riconosce ai familiari di aver perso una persona cara, ma non si assume alcuna responsabilità legale per l'accaduto. E' il sistema che gli Stati Uniti hanno usato in Iraq e che ancora usano in Afghanistan». E “condolence payment” è anche il termine usato dal funzionario del Dipartimento di Stato nel rispondere a l'Espresso sulla trattativa Lo Porto.
Serle spiega a l'Espresso che è piuttosto difficile sapere se gli Usa ricorrono a questi pagamenti come forma di cordoglio [condolence payments] al di fuori dei fronti caldi di Afghanistan e Iraq, ovvero in paesi come Pakistan, Yemen, Somalia, in cui colpiscono i droni americani. «In Pakistan», spiega Serle, «io non conosco un esempio di famiglia di una vittima civile locale che abbia ricevuto un pagamento simile. In Yemen, invece, sono a conoscenza di due esempi in cui un drone Usa ha fatto un disastro, uccidendo molti civili, e le famiglie delle vittime sono state risarcite. Ma quest'ultimo caso sembra dovuto al fatto che i civili morti erano parte di un grande e potente clan tribale, che avrebbe potuto causare molti problemi al governo locale. E i soldi non sono mai arrivati dagli Stati Uniti, ma dai forzieri del governo yemenita e sono stati consegnati attraverso pezzi grossi locali, anche se sono in molti a credere che quel denaro venga dagli Usa attraverso Sanaa». Nel caso di Giovanni Lo Porto era stato lo stesso governo americano a parlare subito di diritto alla verità e di risarcimento: la possibilità di una trattativa tra le parti non era, dunque, un mistero.
Le verità che potrebbero emergere da un eventuale accesso dei familiari ad almeno parte dei documenti americani sull'operazione potrebbero essere l'occasione per un dibattito pubblico sui
progetti degli Stati Uniti per la base di Sigonella, in Sicilia, dove gli americani intendono costruire l' “UAS Satcom Relay”, un sistema satellitare senza il quale gli attacchi dei droni non possono essere sostenuti. Dalle ultime verifiche de l'Espresso l'appalto è stato appena assegnato alla “Mw Lotos Italy”, una società di servizi di ingegneria di Agrate Brianza.
Alle informazioni sulla guerra dei droni raccolte da inchieste giornalistiche come quella del Bureau of Investigative Journalism di Londra e quella del giornalista americano Jeremy Scahill, negli ultimi anni si sono aggiunte le preziose testimonianze di whistleblower che lavoravano all'interno del programma, ma che hanno deciso di abbandonarlo e di denunciarne limiti e abusi. L'avvocato americano Jesselyn Radack, che tutela anche gli interessi di Edward Snowden, difende almeno una decina di questi whistleblower. «Non posso dichiarare pubblicamente il numero esatto di questo tipo di assistiti», racconta a l'Espresso, «la maggior parte di loro hanno abbandonato il programma perché, oltre ad avere riserve morali, non potevano tollerare sprechi, frodi e abusi».
Gli americani Brandon Bryant e Cian Westmoreland sono due dei whistleblower dei droni assistiti dall'avvocato Radack. Dopo essere usciti anni fa dalla guerra dei droni, entrambi ne portano ancora le ferite nell'anima. Westmoreland era un tecnico addetto alla costruzione di quello stesso sistema satellitare previsto per Sigonella: l'Uas Satcom Relay. Con l'Espresso, Cian Westmoreland commenta l'imprecisione degli attacchi e la difficoltà di confermare le vittime civili, vista la coltre di segretezza.
Appena la Casa Bianca ha ammesso pubblicamente l'uccisione di Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein, la stampa americana ha raccontato come, nonostante centinaia di ore di sorveglianza sull'edificio in cui si trovavano i due ostaggi e che fu preso di mira dal drone, la presenza di Lo Porto e Weinstein non venne rilevata. Westmoreland conferma a l'Espresso che questa versione ufficiale è plausibile, considerando che «le immagini riprese dai droni non sono di grandissima qualità e che non è possibile vedere la struttura interna degli edifici». Ascoltando le analisi di Westmoreland e la sua esperienza personale si capiscono le riserve tecniche che ha maturato nel corso del suo lavoro e la crisi di coscienza che questo giovane tecnico ha vissuto. «Mi hanno offerto incentivi per rimanere [nel programma,
ndr], lavori ben pagati nel settore della difesa», ci racconta, «quando mi consegnarono un pezzo di carta in cui si diceva che avevo contribuito a uccidere più di duecento persone, mi sono reso conto che non era quello che volevo fare nella mia vita».