«Questo referendum lascerà il Paese sicuramente più povero. Una recessione che durerà mesi, forse anni. Ma esiste la concreta possibilità che non si voti a favore dell'uscita e che possa essere convocato un secondo referendum». L'analisi di Simon Tilford

Simon Tilford, vice direttore dell'influente think-tank Centro per le riforme europee, è devastato. «È una situazione disastrosa», dice sommessamente dal suo ufficio londinese dove è approdato all'alba: «Adesso tutte quelle stupidaggini dette in campagna elettorale saranno messe da parte per concentrarsi sulla stabilizzazione dell'economia e la rassicurazione delle grandi imprese».

Lo sguardo è tutto verso il futuro: il paese entrerà sicuramente in una recessione lunga mesi, forse anni, di cui «nessuno però può ancora valutare la portata ma che comunque lascerà il Paese permanentemente più povero». Bisogna arginare i danni il più velocemente possibile perché altrimenti tutti quegli investimenti che sono stati messi in pausa in questi ultimi mesi non verranno mai effettuati.
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E sarà una batosta pesante per l'economia, dal settore finanziario a quello immobiliare, per non parlare di tutte quelle società che commerciano abitualmente con l'Europa e gli Stati Uniti. «Abbiamo già avuto un congelamento delle assunzioni», continua: «Adesso assisteremo ai primi licenziamenti. Potrebbero essere centinaia di migliaia».  

Il problema è che l'economia britannica e, in parte, quella europea, è da oggi formalmente ostaggio della politica inglese e delle sue divisioni. «Cosa succederà al Paese dipenderà dalla tipologia di accordo che la Gran Bretagna riuscirà a fare con l'Unione europea, sempre che uscirà davvero», continua.
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Perché il voto di questo referendum, che è solo consultivo, diventi davvero efficace occorre infatti che il governo britannico chieda ufficialmente di uscire e che faccia scattare l'articolo 50 del Trattato di Lisbona. «Ma non è ancora detto che succeda», spiega speranzoso Tilford: «Oltre il 70 per cento del parlamento britannico è contrario ad un'uscita dall'Unione europea ed è proprio il parlamento che deve ratificare l'uscita. «Esiste la concreta possibilità che non voti a favore dell'uscita e che possa essere convocato un secondo referendum». E sospira.

Intanto l'Isola si troverà a fare i conti con una bufera politica. Il Paese è quasi perfettamente spaccato a metà. Il nord con la Scozia, la costa occidentale e Londra fermamente contrarie ad un'uscita. E poi il resto del Paese, quella Little England nostalgica dei tempi imperiali, dai confini territoriali sovrapponibili a quelli di una secolo fa, che non aspetta altro. «Quasi certamente la Scozia non vorrà rimanere nel Regno e, se convocherà un secondo referendum, questa volta non ci sono dubbi che divorzierà dall'Inghilterra».
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Intanto il primo ministro David Cameron si è dimesso. «Cosa buona e giusta perché se è vero che la colpa di questo referendum è sua che lo ha indetto per motivi politici personali, è anche vero che ha fatto campagna a favore del “remain” e la colpa di questo risultato disgraziato ricade in capo ai separatisti. Che adesso rispondano loro di tutte le false promesse fatte ai cittadini!»