Dopo Brexit un nuovo voto incombe sulla Ue: quello del 2 ottobre contro il ricollocamento di 1.300 profughi. Per l’occasione il premier Orban ha realizzato una campagna di affissioni senza precedenti. Basata su slogan allarmistici e autentiche falsità

La storia della nuotatrice Yusra Mardini, la rifugiata siriana che ha partecipato alle Olimpiadi di Rio, ha commosso il mondo. In fuga dall’inferno di Damasco, a 18 anni è giunta in Grecia con la famiglia a bordo di un gommone che rischiava di affondare e, dopo aver attraversato in buona parte a piedi Balcani e Ungheria, è arrivata in Germania. Per quanto toccante, i telespettatori magiari non hanno avuto modo di conoscere la sua vicenda: il cronista della tv pubblica Mtva non l’ha nemmeno nominata quando è entrata in vasca, al contrario di tutti gli altri concorrenti, e quando ha vinto la batteria dei 100 metri farfalla è rimasto muto. "Un errore tecnico", la giustificazione fornita quando si è scatenata la polemica. In quelle stesse ore nel parco di Varosliget, a Budapest, una cinquantina di Hare Krisna sfilavano allegramente al suono di fischietti e tamburi. Ma vari passanti, vedendo le loro tuniche colorate, li hanno scambiati per mussulmani e accolti al grido di "banda di sporchi immigrati", "islamici assassini", "vi dovrebbero cacciare via". Per inciso: fra gli "arancioni" non c’era nemmeno uno straniero.

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Eccola l’Ungheria che si prepara al referendum indetto per il 2 ottobre dal governo nazionalista e conservatore di Viktor Orban contro il ricollocamento dei migranti giunti in Italia e Grecia deciso da Bruxelles lo scorso autunno: un misto di paura, xenofobia, senso di accerchiamento. Del resto lo stesso premier li ha definiti in passato "parassiti criminali" e al massimo, negli spot del governo, vengono definiti "clandestini" (illegális bevándorló), mai "rifugiati". Un nemico invisibile (trovare profughi per il Paese è praticamente impossibile) ma onnipresente: sui giornali, nelle tv e soprattutto nei manifesti con cui l’esecutivo ha tappezzato stazioni ferroviarie e fermate dei bus, autostrade e arterie a scorrimento veloce, paesini di campagna e località di villeggiatura. Con messaggi allarmistici che spesso sconfinano in autentiche menzogne.

Il cartellone più gettonato ad esempio recita: "Lo sapevate? Bruxelles vorrebbe ricollocare forzatamente in Ungheria tanti clandestini quanti una città intera". Quanti di preciso, però, non viene detto. E il motivo è chiaro: sarebbero appena 1.294 in una nazione di quasi 10 milioni di abitanti. Uno ogni 8mila residenti, non proprio un numero impossibile da gestire. Tanto più che ancora nessuno è stato accolto. Un altro manifesto gioca sull'immancabile visione dei migranti come potenziali stupratori: "Dall’inizio della crisi dell’immigrazione è aumentato notevolmente il numero delle violenze sulle donne in Europa". In altri casi le bugie sono spudorate: "Lo sapevate? Gli attentati di Parigi sono stati commessi da immigrati". Falso: erano francesi e belgi.

D’altronde il quesito referendario pare fatto apposta per orientare il responso elettorale: "Volete o no che l'Ue possa obbligarci ad accogliere in Ungheria, senza l'autorizzazione del Parlamento ungherese, il ricollocamento forzato di cittadini non ungheresi?". Secondo un recente sondaggio, il 54 per cento degli elettori si recherà certamente alle urne e la vittoria del "no" pare scontata: fra i votanti sicuri, è già al 37 per cento contro un misero 5 per cento di "sì".

Quanto costi ai contribuenti questa campagna elettorale tanto massiccia e capillare non è dato sapere: "Népszabadság", il principale quotidiano del Paese e uno dei pochi critici col governo, ha posto la domanda da settimane ma non ha ancora ricevuto risposta. Se l’uso delle risorse pubbliche è ignoto, fin troppo evidente è invece l’obiettivo politico di Orban: ottenere un plebiscito, da sventolare all’estero contro la Commissione europea e in patria contro le opposizioni. «Più ampio sarà l'appoggio popolare, più facile sarà difendere i nostri interessi a Bruxelles» ha detto chiaramente il premier nei giorni scorsi. La consultazione, hanno sostenuto vari esperti di diritto, è priva di valore giuridico e nulla impedirà alla Ue, in virtù dei trattati sottoscritti, di imporre comunque la ripartizione della quota di migranti prevista. Ma con un'alta affluenza e un risultato schiacciante è ovvio che il peso del "no" sarebbe maggiore, per una Ue ancora scossa dalla Brexit. Insomma, "l’Ungheria non si dà per vinta" come si legge nello slogan che campeggia in bella vista sul sito di Fidesz, il partito del premier.

«Orban non accetta che si tratta di un problema mondiale. Gioca con le parole, parla di "potenziali terroristi", "clandestini" e il risultato è che, anche per effetto della campagna del governo, pure se non ne hanno mai visti fra gli ungheresi aumenta la paura» commenta Babar Baloch, portavoce regionale dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite.

Per quanto non proprio caritatevole, la linea del governo può contare su un formidabile alleato: la Chiesa cattolica, a una distanza siderale dalle posizioni di accoglienza di papa Francesco, che ha invitato ad aprire le parrocchie ai profughi. «Non sa cosa dice, non conosce la situazione» ha tagliato corto quando glielo hanno fatto presente Laszló Kiss-Rigó, vescovo di Seghedino, la principale città al confine con la Serbia. Il cardinale Peter Erdo, arcivescovo di Budapest e fra l'altro presidente della Conferenza episcopale europea, si è invece trincerato dietro il rispetto della legalità: «Non possiamo seguire la politica delle porte aperte, la legge ce lo vieta». All’ultimo conclave Erdo era uno dei papabili per la successione a Benedetto XVI.