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Donald il magnate contro Trump il presidente

Un impero con 111 società dall’Europa all’Asia. E un conflitto di interessi globale

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Centoundici società diffuse in 18 paesi in giro per il mondo. Dall’Europa al Sudamerica, dall’Asia al mondo arabo, l’impero di Donald Trump (che venerdì 20 gennaio ha fatto il suo ingresso alla Casa Bianca, nuovo presidente della più grande potenza del pianeta) spazia un po’ ovunque, comprese nazioni (come Indonesia, Arabia Saudita, Brasile, Turchia) con cui gli Stati Uniti hanno avuto, hanno o avranno qualche problema. Oltre ovviamente alla Russia dell’amico Vladimir Putin, da 70 anni nemico per eccellenza (guerra fredda o meno fa parte dell’inconscio di ogni buon americano) degli Usa.

Un impero con cui - sotto le bandiere della Trump Organization, la holding di famiglia che controlla decine di società - The Donald gestisce da decenni i suoi affari miliardari (e le sue bancarotte), finiti più di una volta sotto le lenti di ingrandimento di giudici, ispettori del fisco o controllori di vario genere. Quanto basta per stilare un bell’elenco di conflitti di interessi, veri o presunti, già in corso o solo ipotizzabili.
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Forse non c’è niente di male (come dice lui), visto che il presidente americano è un miliardario (anche se talvolta ha millantato più di quanto dovuto) e i suoi affari in giro per il mondo sono andati avanti di pari passo con le sue performance nei reality show televisivi (quattordici stagioni come “star” di The Apprentice su Nbc). Più probabile che qualcosa non torni, ora che ha messo piede nello Studio Ovale e può decidere (si spera non via Twitter) di qualche destino in giro per il globo. Perché sarà pure legale, ma un presidente degli Stati Uniti d’America che mette su un cantiere (non un’epoca fa, era il maggio 2016 e lui era già candidato “in pectore” del Grand Old Party) per costruire una torre miliardaria a Gedda insieme al Saudi Binladin Group - che appartiene alla famiglia del capo di Al Qaeda fatto uccidere da Obama, imparentata con i regnanti sauditi - qualche problemino lo può provocare.

L'IMPERO DI TRUMP NEL MONDO
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Problemini che possono sorgere anche per i suoi affari (passati) con Mauricio Macri - oggi presidente dell’Argentina - per i suoi hotel, ville e golf club costruiti o da costruire in Indonesia (il più grande Stato islamico del mondo), per certi affarucci in Turchia sui quali - lo ha ammesso candidamente - «ho un piccolo conflitto d’interessi per un grande palazzo a Istanbul». Senza contare che anche in quello che The Donald ha individuato come suo principale nemico, la Cina (con tanto di pericolose aperture a Taiwan), è pronto a fare “business” (già da anni in atto attraverso il suo gruppo Trump Hotel Collection).

L’elenco dei possibili conflitti d’interessi di Trump è lungo: il fisco (lui è tuttora sotto accertamento, per vent’anni non risulta abbia pagato le tasse federali) ed ora gli ispettori dell’Irs prenderanno ordini da un suo ministro; le leggi sul lavoro, con i suoi cantieri che hanno avuto diverse denunce per abusi (ma chi indaga ora dipende da lui); gli affitti dei suoi hotel a enti pubblici. Oltre alla mai chiarita (da lui) questione delle banche che gli hanno erogato fidi, compresi istituti cinesi e la Deutsche Bank (che ha un contenzioso aperto con il Dipartimento di Giustizia e il Tesoro Usa).

«Potrei continuare a gestire la mia azienda anche facendo il presidente, ma non lo farò: cedo il comando ai miei figli, Eric e Donald Jr.». Così ha parlato The Donald, per lui il problema di un conflitto di interessi non esiste, a seguire gli affari di famiglia ci penseranno i due rampolli maschi (il terzo è ancora minorenne) mentre per Ivanka (la figlia favorita) e per il marito di lei Jared Kushner (l’eminenza grigia della Casa Bianca, “senior adviser” del presidente e inviato speciale per il Medio Oriente) si sono spalancate le porte dei Palazzi del potere che contano a Washington.
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Per rassicurare l’America lui si è limitato ad assicurare che «loro, i miei figli, non discuteranno mai di affari con me», ripetendo ad ogni obiezione la frase «la legge non mi obbliga». Tecnicamente ha ragione, visto che non è obbligato (come tutti gli consigliavano) al blind trust, ma solo alla cosiddetta emolument clause, una norma della Costituzione che risale al 1787 e che recita: «Nessun individuo che abbia un incarico nel governo può, senza il consenso del Congresso, accettare alcun dono, emolumento, incarico o titolo di qualsiasi tipo, da alcun re, principe o Stato estero». I media Usa hanno ricordato a questo proposito come Andrew Jackson (presidente dal 1829 al 1837) restituì una medaglia d’oro avuta in dono dal rivoluzionario latino-americano Simon Bolivar. The Donald saprà fare altrettanto?

Nella sua prima conferenza stampa ha “duettato” con il suo avvocato Sheri Dillon, lasciando a quest’ultima il palco (fatto assai insolito) in modo che fosse lei a spiegare - ai giornalisti presenti, ma soprattutto all’America che lo seguiva in diretta tv - il piano con cui il presidente-miliardario cerca di rassicurare cittadini (e mercato) di essere uomo rispettoso delle leggi. A giudicare da commenti, analisi e dalla valanga di commenti (più o meno riferibili) che si sono riversati sul social network, si potrebbe credere che ne abbia convinti pochi di cittadini americani. Ma sarebbe un errore.

Con Trump (e le sue mosse, spesso indecifrabili) occorre iniziare a ragionare in modo diverso da quello cui eravamo abituati, lui parla al suo elettorato con slogan efficaci (chiacchiere da bar diremmo noi) e immagini - meglio se in diretta televisiva - che devono rimanere impresse. Ecco dunque che l’avvocato Dillon, spigliata e un po’ professorale nella sua lunga disquisizione ai reporter accreditati alla Casa Bianca, che spiega come conflitti d’interessi non ce ne siano. E nel dirlo mostra una bella mazzetta di documenti (che nessuno può leggere) e chiude - mentre a pochi passi da lei The Donald annuisce e conferma con ampi gesti - con un bel «done!». Fatto cosa non si sa, ma il Trump Team ha ottenuto quello che voleva: il nuovo presidente mette sempre le cose a posto.
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Poco importa quello che succede dopo. Le certezze degli elettori-fans che battono le mani in attesa che l’America “ridiventi grande” (come da promesse elettorali) non vengono intaccate dal fatto che il direttore dell’Office of Government Ethics - l’ufficio federale che ha il preciso compito di controllare il conflitto di interessi dei membri del governo - dica che «il piano è completamente inadeguato e senza senso». E se qualcuno avesse qualche dubbio basta un bel tweet del Commander in Chief («dishonest media! fake!») per convincerli che è la stampa a raccontare frottole. Del resto quando hai oltre 20 milioni di follower - cifra che dopo l’Inauguration Day è salita ancora - e usi Twitter come una clava contro “nemici” veri o presunti, il successo (soprattutto se siedi alla Casa Bianca) è assicurato.

Occhio ai conflitti di interessi ma massima attenzione allo “stato dei conflitti” nell’era di The Donald. Perché è sui rapporti con l’Intelligence (mai un presidente ha attaccato così pubblicamente i suoi “spioni”) e di conseguenza con la Russia di Putin che, ancora prima di mettere piede alla Casa Bianca, ha trovato paletti anche da parte degli uomini da lui scelti in posti-chiave (Pentagono, Cia, Tesoro).

Perché può anche cantare vittoria con l’industria automobilistica, ma il numero dei nuovi posti di lavoro in Michigan, Pennsylvania o Wisconsin (gli Stati dove i maschi, bianchi e disoccupati, lo hanno fatto vincere) rischiano di essere nulla di fronte a una possibile recessione. Perché la “guerra dei dazi” in lungo e in largo rischia di essere un boomerang. Perché un presidente non può indicare la politica estera (e l’attività della diplomazia) con messaggi di 140 battute su un social network. Se pensa di governare l’America (e i conflitti del mondo) come se fosse il Chief Executive Officer (la definizione è del Washington Post) di una grande corporation, dovrà tener conto che ogni cittadino americano è un azionista. E gli amministratori delegati che sbagliano negli Usa prima o poi vengono cacciati.
 

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