Una competizione tra sovrani miliardari che vogliono mostrare al mondo tutta la loro potenza. A guadagnare dalla contesa, intanto, sono le archistar: che si dividono parcelle milionarie per i progetti. Ma dietro la sfida architettonica c’è anche la partita politica e il puzzle dei rapporti con Usa, Arabia Saudita e Iran

Louvre Abu Dhabiís plaza © Louvre Abu Dhabi, Photography: Mohamed Somji
Leonardo da Vinci e Vincent van Gogh contro Neymar junior e Kylian Mpabbé. Musei contro mondiali di calcio. Petrolio contro gas. Muhammed Al Nahyan, erede al trono degli Emirati Arabi Uniti, contro Tamim al Thani, emiro del Qatar e proprietario del Paris Saint-Germain. Dietro c’è uno scontro politico-diplomatico per stabilire chi è più vicino alla pacificazione con l’Occidente contro il jihad terrorista globale.

Il derby fra Abu Dhabi e Doha ha assunto toni da guerra fredda con il ritiro dell’ambasciatore degli Emirati dalla capitale del Qatar, lo scorso giugno. In aggiunta, il regno degli al Thani è stato colpito da un embargo economico al quale partecipano anche i due gigantidell’area, cioè l’Egitto e l’Arabia Saudita, oltre al piccolo Bahrein.

In questo quadro, l’apertura del Louvre di Abu Dhabi, il prossimo 11 novembre, non è soltanto l’evento culturale dell’anno. Il debutto di Abu Dhabi come peso massimo della cultura museale è l’occasione per i Paesi del Golfo di contarsi e di definire la loro posizione nel contesto geopolitico più perturbato del globo.

Per il gran gala di novembre si attende come ospite d’onore Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese in cerca di puntelli per la sua popolarità in calo. La festa di apertura è stata programmata e rinviata almeno quattro volte negli ultimi quattro anni. Portare in Arabia i capolavori dei musei parigini si è rivelato più difficile del previsto. Calendario alla mano, è trascorso oltre un decennio dall’accordo, firmato nel marzo 2007 durante la presidenza di Jacques Chirac, per l’utilizzazione del nome Louvre con annesso bonifico da 400 milioni di euro al governo francese per i “naming rights” di durata trentennale.
Louvre Abu Dhabi © Louvre Abu Dhabi, Photography: Mohamed Somji

Le 23 gallerie permanenti del “museo universale” ospiteranno 600 opere che vanno dalla pittura rinascimentale con il Ritratto di dama di Leonardo ai quadri di età imperiale di Jacques-Louis David, dalla Stazione di Saint-Lazare di Claude Monet fino alle sculture contemporanee di Ai Weiwei. La metà del materiale in esposizione negli 8600 metri quadrati del Louvre asiatico sarà fornita dai vari musei francesi che partecipano all’iniziativa insieme al Louvre di Parigi.

Per sottolineare la missione del nuovo museo come simbolo di tolleranza, saranno esposti antichi testi delle principali religioni del mondo, fra i quali un Pentateuco, una Bibbia gotica, un foglio del Corano blu, oltre a documenti buddisti e taoisti raccolti sotto una cupola dal diametro di 180 metri.

Muhammed Khalifa al Mubarak, presidente dell’autorità per il turismo degli Eau, ha annunciato che saranno prese tutte le misure necessarie a proteggere l’arte, sia dalle condizioni climatiche estreme del Golfo, sia da eventuali attacchi terroristici. «Non siamo una società chiusa», ha detto al Mubarak alla presentazione del progetto un mese fa, «noi e i francesi abbiamo lo stesso obiettivo: spiegare al mondo come la loro e la nostra storia siano connesse». L’altro obiettivo, ancora più importante, è rassicurare le potenze occidentali che gli Emirati continueranno a tenere separato lo Stato dalla religione o, come dicono loro, la fede dalla governance.

L’inaugurazione dell’11 novembre è un primo passo che sarà seguito da altri. L’isola di Saadiyat, dove sorge il Louvre, è programmata per essere un polo culturale di primo livello su più fronti. Oltre alla New York university e al Cranleigh Institute, già installati, sono in corso i lavori per realizzare il museo dedicato più specificamente all’arte araba e intestato al fondatore degli Eau, Zayed al Nahyan, morto nel 2004. A poca distanza dal Louvre sorgerà il Guggenheim più grande del mondo, per un investimento da 200 milioni di dollari.
Il Zayed national Museum di Abu Dhabi


La parata dei Nobel
Oltre al polo culturale, l’isola dei musei presenta un tratto urbanistico molto diverso dal centro della capitale e dallo skyline della vicina Dubai. A Saadiyat, collegata con un ponte stradale al centro di Abu Dhabi, le costruzioni basse in stile tradizionale prevalgono sui grattacieli anche quando sono destinate ad accogliere le strutture delle grandi catene alberghiere internazionali, che crescono nel raggio di un chilometro intorno al polo museale.

C’è un tentativo, forse fuori tempo massimo, di preservare quegli spazi naturali che i cugini dell’emirato confinante hanno bruciato nel giro di un ventennio in nome di progetti di enorme impatto ambientale. È il caso delle varie Palme, gli arcipelaghi artificiali costruiti fra Jumeirah e Jebel Ali, intasati di ville con vista su canali trasformati in stagni dalle leggi dell’idrodinamica.

Il fronte a mare di Saadiyat è ancora libero per chilometri, con spiagge pubbliche a pagamento che potrebbero continuare a convivere con lo sviluppo immobiliare più misurato del quartiere dell’arte.

Contro le abitudini efficientiste degli Emirati, i cantieri sono in ritardo. I problemi economici dell’ultimo decennio, dalla crisi dell’immobiliare al crollo dei prezzi del petrolio, hanno imposto il loro dazio sui finanziamenti, che soltanto per l’edificio del Louvre superano i 600 milioni di euro, un’enormità in un’area dove i lavoratori edili sono ancora pagati nell’ordine di 200-300 dollari al mese.

La parte del leone nella divisione dei fondi destinati alle opere l’hanno fatta le archistar internazionali. Quattro vincitori del Pritzker Prize, il Nobel dell’architettura, sono coinvolti nei progetti principali. Jean Nouvel ha firmato il Louvre. Al giapponese Tadao Ando è stato commissionato il Museo marino. Norman Foster ha progettato lo Zayed national museum. Frank Gehry ha in mano il Guggenheim, un nome che da solo suona come una provocazione per chi si augura la distruzione di Israele in modo più o meno esplicito.

Aprire un Guggenheim nella penisola arabica non è un passo di scarso significato, in una fase in cui l’ondata fondamentalista è in piena globale. E il Qatar, almeno secondo quanto afferma il blocco formato da Emirati, Bahrein, Egitto e Arabia Saudita, non solo appoggia e finanzia ogni movimento radicale o terrorista, da Daesh ad al Qaeda, da Hamas ai Fratelli Musulmani, da al Nusra ai miliziani islamisti in Libia e in Siria, ma è la quinta colonna della destabilizzazione perseguita dall’Iran, che si affaccia da oriente sul Golfo Persico.

In questo contesto, tornano scenari da anni Cinquanta, con le due superpotenze in manovra. Donald Trump, dopo l’inversione di rotta sugli ayatollah rispetto a Barack Obama, è il riferimento naturale del blocco a quattro anti-Qatar. Ma proprio gli al Thani ospitano sul loro territorio nazionale la base militare statunitense di al Udeid, la più grande del Golfo con diecimila elementi. Dopo l’iniziale dichiarazione di appoggio alla coalizione dei quattro, la segreteria di Stato Usa ha ribadito che i rapporti della Casa Bianca con Doha non cambiano. Ma il disgelo tra Vladimir Putin e la monarchia saudita potrebbe ulteriormente isolare il Qatar.

Museo contro stadio
Gli al Thani rincorrono da vent’anni il modello di sviluppo degli Emirati. Spesso la battaglia è avvenuta sullo stesso terreno, com’è stato con la creazione di una compagnia di bandiera capace di competere con Emirates (Dubai) e Etihad (Abu Dhabi). Nonostante l’avventura di Etihad in Alitalia sia andata male, Qatar airways ha comunque rilevato pochi giorni fa il 49 per cento di Meridiana.

Anche con gli investimenti nel calcio europeo Doha ha dovuto rincorrere le iniziative dei rivali emirati. Nel 2008 Mansur bin Zayed al Nahyan ha rilevato il Manchester City. Tre anni dopo, nel 2011, la Qatar sports investments ha comprato il principale club di Parigi, il Psg, affidandolo a Nasr al Khelaifi, compagno di doppio a tennis del principe Tamim.

L’unico settore dove Doha surclassa Abu Dhabi è la televisione. Dopo avere trasformato al Jazeera da piccola emittente di zona in network dell’informazione mondiale, gli al Thani si sono inseriti nel mercato complesso e “capital intensive” dei diritti dello sport in tv attraverso beIn, concorrente diretto di Canal plus in Francia e monopolista del calcio nei Paesi arabi.

Per sostenere l’investimento nello sport, a Doha non è bastato avere una squadra che vince la Ligue 1 in Francia. La scorsa estate lo slogan “o Champions o bancarotta” ha animato una campagna acquisti che resterà nella storia, con il mezzo miliardo di euro speso per portare al Psg il brasiliano Neymar e il giovanissimo nazionale francese Mbappé.

La terza gamba di questa politica saranno i Mondiali di calcio del 2022, i primi che si disputeranno in inverno per ragioni climatiche. Fra accuse di tangenti nella fase di assegnazione della sede e polemiche sui nuovi stadi realizzati da manodopera che lavora in condizioni semiservili, i cantieri delle nuove cattedrali calcistiche nel deserto procedono con priorità assoluta, sebbene le conseguenze dell’embargo dei quattro contro Doha si stiano già facendo sentire in termini finanziari, bancari, di traffico aereo e di scambi commerciali, incluso il settore alimentare, che dipende per il 40 per cento dalle importazioni dall’Arabia Saudita.

Fare cassa è una priorità e lo scorso settembre la partecipazione da 11 miliardi di dollari della Qatar investment authority (Qia) nel colosso energetico russo Rosneft è stata rivenduta dopo appena otto mesi.

L’ombra del padre
Secondo fonti diplomatiche degli Emirati, il trentasettenne Tamim sarebbe incline a distaccarsi dai rapporti con i predicatori più compromessi con il fanatismo integralista, come l’egiziano Yusuf al Qaradawi, vicino ai Fratelli Musulmani e ospite dei canali tv di al Jazeera.

Ma le stesse fonti affermano che il giovane emiro ha un’autonomia limitata. Tamim sarebbe ancora sotto l’influenza del padre Hamad, che ha abdicato nel 2013 a 61 anni, un’età molto precoce per gli standard del Golfo.
Naturalmente, le versioni dei due schieramenti divergono. A Doha respingono ogni accusa di appoggio alle truppe del terrore e di ingerenza negli affari interni dei vicini di casa. Appena pochi giorni fa, l’Interpol ha rimosso proprio al Qaradawi dalla sua lista dei “most wanted”, perché le accuse più gravi contro di lui erano falsi costruiti dal regime di al Sisi.

Resta il fatto che nello scorso mese di agosto gli al Thani hanno ristabilito le relazioni diplomatiche con l’Iran, interrotte un anno prima, quando ancora il Qatar partecipava alla coalizione guidata dai sauditi che combatte i ribelli sciiti Houthi in Yemen.

La ripresa dei rapporti con Teheran non è certo un elemento di distensione, considerato che Iran e Qatar occupano il primo e il secondo posto nelle classifiche dei Paesi che ospitano il maggior numero di “terroristi designati” sia nelle liste elaborate dall’Onu che negli elenchi stilati dal dipartimento di Stato Usa. E mentre l’Europa si gode le prodezze balistiche di Neymar, i parlamentari del Bahrein stanno preparando un atto di accusa contro i crimini di Doha da presentare alla Corte internazionale dell’Aja.