L'invito ad andare a Soci, se invito vogliamo chiamarlo, Bashar al Assad l’ha ricevuto solo un paio di giorni prima di venire caricato su un aereo russo e trasportato nella cittadina sul Mar Nero, il 23 novembre. Nei piani di Vladimir Putin i pubblici ringraziamenti del collega siriano dovevano essere il viatico del summit con il turco Recep Tayyip Erdogan e l’iraniano Hassan Rohani.
Un vertice che la stampa di tutto il mondo, russa in primis, ha subito ribattezzato la “Yalta mediorientale” con grande soddisfazione del padrone di casa. «Vladimir adora questa immagine», assicurano dall’entourage di Putin. Sia per il rinvio alla figura del “Grande Condottiero” Stalin, sia perché mettere Turchia e Iran al posto di Gran Bretagna e Stati Uniti è di questi tempi per lui soddisfazione non da poco. Incassato quindi l’assenso di massima ai suoi piani da parte di Ankara, Teheran, ma anche del presidente Usa Donald Trump, del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e del premier israeliano Benjamin Netanyahu, il Cremlino ha dato il via libera per il colpo di scena: fate entrare Assad, grande sopravvissuto a quasi sette anni di contestazioni e poi guerra. La prova vivente che in Medio Oriente, nel bacino mediterraneo in particolare, da ora in poi i conti bisogna farli con la Russia.
Con una eloquente coreografia, Assad è arrivato dunque a Soci, dove ha ringraziato Putin per i due anni abbondanti di sostegno «nella guerra al terrorismo». Il presidente russo gli ha presentato «alcune persone che hanno avuto un ruolo cruciale nel salvare la Siria», ovvero gli alti gradi militari moscoviti. E il giorno dopo, sotto gli occhi attenti dei presidenti turco e iraniano, il leader russo ha adagiato il corpo malandato della Siria sul tavolo operatorio e si è messo a discutere l’inevitabile divisione del Paese mediorientale in zone di influenza: sciita-alawita, sunnita, curda, più una fascia di sicurezza al confine con Israele.
Tagli e suture che non prevedono l’uscita di scena del presidente siriano. Un intervento chirurgico che cambierà profondamente gli equilibri nella regione e che nei piani di Putin confermerà la Russia nel ruolo di primo regista. Il tutto in pragmatico accordo, se non in sintonia, con l’America di Donald Trump e la Cina di Xi Jinping. E naturalmente sotto la formale egida delle Nazioni Unite, consesso malato di crescente marginalità, ma difeso a spada tratta da Mosca, che per nulla al mondo vuole rinunciare al suo diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza.
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Se i malumori della Turchia sulla questione curda o un nuovo colpo di mano del giovane leader saudita non faranno saltare il tavolo, la “Pax putiniana” è dietro l’angolo. Il capo dello Stato russo vuole usarla per coronare il suo terzo mandato presidenziale e inaugurare il quarto, per cui ufficializzerà a breve la sua candidatura. A un elettorato che non vede alternative all’uomo al comando dal 2000, ma che comincia a segnalare voglia di cambiamenti, Putin offre una conferma in grande stile del ritorno della Russia a status di player imprescindibile sulla scena mondiale. Come hanno dimostrato la crisi georgiana ancora nel 2008 e poi quella in Ucraina, questo è un tasto sensibilissimo in un Paese sempre alle prese con lo shock del crollo dell’impero sovietico. Altro che rango di “mera potenza regionale” a cui Barack Obama aveva tentato di declassare l’erede dell’Urss, condannando l’annessione della Crimea.
Grazie agli errori e ai vuoti lasciati dagli Usa, grazie al pragmatismo di Xi Jinping, interessato più a petrolio e gas che a controllare gli obiettivi dei bombardamenti su Aleppo, Putin può effettivamente presentare la Russia come una superpotenza de facto e agire di conseguenza. Chi ha diretto accesso al presidente (cerchia sempre più ristretta, ma cresce il numero di esperti di Medio Oriente) racconta che Putin è convinto di avere fatto in Siria gli interessi non solo russi, ma anche dell’Europa, se non di tutto l’Occidente. Racconta inoltre che perde le staffe quando si parla di Ucraina e di come l’Ue non abbia voluto scendere a patti prima che fosse troppo tardi. E garantisce che il presidente russo sarebbe pronto a cedere su molti punti se gli fosse riconosciuta una qualche leadership nella lotta al terrorismo jihadista di cui si sente veterano. «Noi li abbiamo in casa», ribadisce Putin ogni volta che si discute di minaccia fondamentalista. Effettivamente, due guerre in Cecenia e operazioni antiterrorismo a tappeto nel Caucaso hanno zittito, ma non spento i focolai jihadisti sul versante meridionale della Federazione russa. E il Medio Oriente è pericolosamente vicino.
Trump, a dire il vero, ha tentato più volte di dire che la Russia è un importante alleato nella guerra all’estremismo islamico. Ma in Occidente l’attivismo militare e “asimmetrico” (internet al posto dei missili) raccoglie più diffidenza che crediti. Poco male, ragiona Vladimir Vladimirovic. Le sanzioni Ue ed Usa hanno confermato che, sotto assedio, i russi si stringono attorno al loro leader. Quanto al dialogo con europei ed americani, Putin è arrivato alla conclusione che per farsi ascoltare è meglio agire e poi presentare il conto, come ha fatto in Siria. Sicuro che gli eventi forniranno occasioni per rilanciare altrove.
Il Cremlino è convinto che lo Stato islamico, oltre a rappresentare una minaccia globale in termini di esodo di foreign fighters, stia già lavorando per riorganizzarsi. Se non proprio sotto forma di Califfato, come presenza sistemica in Africa del Nord , in Pakistan e Afghanistan e nei Paesi centro-asiatici ex sovietici. Anche per questo la Libia è un altro fronte su cui Mosca è attiva da oltre un anno. Prima con l’avvicinamento al generale Khalifa Haftar, nemico del governo di accordo nazionale patrocinato dall’Onu e guidato da Fayez al -Sarraj. Poi con una intensa navetta diplomatica affidata a Lev Dengov: il capo del gruppo di contatto russo per la Libia è stato incaricato di correggere il tiro e concentrarsi sul Fezzan, la regione meridionale terra di transito per decine di migliaia di migranti in viaggio verso l’Italia, considerata nel mirino dell’Isis.
L’Egitto del presidente Al Sisi è a sua volta un interlocutore corteggiatissimo dai russi, per molteplici ragioni. Il Cairo è tramite per ogni azione in Libia, ha un forte potenziale economico e il presidente egiziano ha bisogno di alleati nella sempre più aperta guerra in casa con lo Stato islamico. Gli stessi ragionamenti la Russia li fa sull’Afghanistan e con i Paesi dell’Asia centrale che furono sovietici e oggi sono fucina di estremismo jihadista e interessanti mercati commerciali.
Putin ha altri sei anni per lavorare su questi scacchieri e consolidare il ruolo internazionale della Russia. Dopo le prossime elezioni, se arriverà alla fine del mandato, lascerà il Cremlino nel 2024. Avrà quasi 72 anni e almeno quattro guerre alle spalle, combattute nel nome degli interessi vitali russi: Cecenia, Georgia, Ucraina e Siria. Sempre che sulla via del tramonto la quasi-superpotenza ritrovata non si imbatta in una nuova missione irrinunciabile.