Il mondo ha vissuto in questi anni un nuovo conflitto mondiale. Combattuto non più con gli eserciti e con le truppe di occupazione, ma con i mercati e con il terrorismo globale. Ha vinto la finanza, ha perso il ceto medio. E oggi siamo alla ricerca di un nuovo ordine. Ma di tutto questo non si ha traccia nel nostro dibattito politico

L’Italia fu il paese occidentale in cui gli effetti della Guerra fredda si fecero sentire più in profondità, assieme alla Germania. Come disse il presidente della Repubblica Francesco Cossiga in un’intervista a The Independent, era il 23 ottobre 1990, rilasciata alla vigilia della sua visita in Inghilterra: «Due paesi sono stati spaccati da una cortina di ferro: la Germania sul piano territoriale, e l’Italia politicamente, moralmente, ideologicamente. Io non so dove la cortina di ferro sia caduta più pesantemente. Non viene mai sottolineato che il crollo del muro di Berlino è anche il crollo di un muro invisibile. Oltre alla Germania, anche noi siamo stati liberati e riunificati. Anche per noi la guerra è quasi finita».

C’era un muro immateriale che tagliava in due il Paese. Nel 1945, nella grande spartizione del mondo tra le potenze anglo-americane e l’Unione sovietica di Stalin all’Italia, nazione sconfitta e devastata, era toccata la collocazione occidentale. Un’intera classe dirigente, politica, economica, imprenditoriale, culturale, Alcide De Gasperi e Raffaele Mattioli, Aldo Moro e Enrico Cuccia, Giulio Andreotti e Guido Carli, si abituò a muoversi per decenni all’interno di questo perimetro, chiedendosi quale ruolo potesse avere l’Italia in un campo di gioco ristretto ma strategico. Un ruolo importante, fondato sulla posizione geografica, la doppia frontiera tra est e ovest, l’Oriente interno rappresentato dal Pci, e tra nord e sud, tra l’Europa e il Mediterraneo. Chiara era la direzione di marcia, il modello sociale, il progetto in cui svolgere manovre, scontri di potere, richieste di voto. Così l’Italia che aveva perso la guerra vinse il dopoguerra, sviluppando un sistema industriale moderno che non aveva mai avuto e il sistema democratico garantito dai partiti e dalle istituzioni repubblicane e costituzionali. Una democrazia fragile, a sovranità limitata, perché gli accordi di Yalta non ammettevano forzature. E quando qualcuno provava a oltrepassare il confine, il muro invisibile, la reazione era immediata e brutale. Vedi il misterioso incidente di Enrico Mattei o le influenze esterne nei giorni del sequestro di Aldo Moro.

Appare indubitabile che il mondo abbia vissuto in questi anni un nuovo conflitto mondiale. A pezzetti, come ha detto Papa Francesco, asimmetrico, combattuto non più con gli eserciti e con le truppe di occupazione, ma con i mercati e con il terrorismo globale. Ha vinto la finanza, ha perso il ceto medio, in tutto l’Occidente. E oggi siamo alla ricerca di un nuovo ordine, una nuova Yalta, con i nuovi protagonisti raccontati sul numero dell'Espresso in edicoal da domenica 3 dicembre da Dario Fabbri, Orietta Moscatelli e Federica Bianchi.
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L’America, potenza egemone del precedente assetto, vive una crisi interna, di identità e di missione nel mondo, simile a quella dell’Impero inglese settant’anni fa. Mantiene il suo status ma è avviluppata a Donald Trump come «marinai incatenati alla nave che affonda: non possono liberarsi e non ammetteranno mai che hanno un idiota al potere», lo dice Joe R. Landsdale a Gianni Cuperlo in un'intervista ospitata nel nuovo numero del nostro settimanale.

La Cina di Xi Jinping avanza la sua candidatura alla conquista perfino dell’immaginario globale, oltre che della tecnologia, della ricerca, della robotica. E Vladimir Putin occupa stabilmente il posto che fu dell’Urss, alla guida di una nuova «Internazionale dei regimi autoritari», come scrive Bernard Guetta. Alle loro spalle, anzi, al fianco, c’è l’immenso continente indiano del premier Modi.

C’è l’Africa che è il terreno di contesa tra le nuove superpotenze. Il rimescolamento delle alleanze in Medio Oriente porta a convergenze inaspettate: per Israele la Siria e Assad non sono più nemici, a mediare ci pensa Putin, che a Mosca riceve per la prima volta il monarca saudita Salman d’Arabia.

E poi c’è l’Europa con le sue divisioni.

Francia e Germania fanno sistema, uniscono le forze. Non è più un asse fondato su leadership e carismi personali, sulla memoria tragica del conflitto mondiale, come avvenne con Helmut Kohl e François Mitterrand, i due paesi mettono insieme le loro strutture statuali e economiche, si attrezzano a reggere urti e incertezze, come quella che ora avvolge il governo di Angela Merkel. Mentre il giovane Emmanuel Macron prova a dettare i tempi e i modi della nuova Europa: più protezione per i cittadini, perché l’Europa non può più essere avvertita come una matrigna lontana e cattiva, disinteressata alle sorti dei suoi cittadini, più sicurezza, con il progetto della difesa comune, più opportunità di ricerca e di investimenti tecnologici. Solo alla fine di questo percorso si può pensare a una riforma dei trattati, a cambiare il soffitto, il vertice della costruzione europea. Intanto Francia e Germania marciano unite in Africa, alla conquista di nuovi mercati e di nuove sfere di influenza.

Parliamo di questo in Italia? No. Di tutto questo non si ha traccia nel nostro dibattito politico, alla vigilia del voto 2018. Nelle cancellerie internazionali si guarda con interesse e curiosità, e con qualche preoccupazione, all’esito delle elezioni, «anche se sappiamo che gli italiani sono campioni nell’arte della resilienza», scherza un ambasciatore europeo di lungo corso spedito dal suo paese nella prestigiosa sede diplomatica a vigilare e informare su quanto si muove a Roma. È vero, ma l’assenza di dibattito sul ruolo dell’Italia nella nuova spartizione dovrebbe spaventare ben più dell’eventualità di restare senza un governo dopo il voto. Nel quadro della vecchia Yalta, in fondo, i governi andavano e venivano e poteva capitare che le crisi ministeriali durassero mesi, in modo indolore. Ma il sistema reggeva, all’ombra delle superpotenze e della presenza sul territorio nazionale del Vaticano e del papato, inteso non come guida della Chiesa universale ma come papa italiano, attore insieme globale e locale.
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È un’altra carta che non c’è più. Il piemontese-argentino Jorge Mario Bergoglio è il meno italiano dei papi stranieri e dopo quarant’anni di assenza di italiani dal soglio di Pietro si prepara un conclave futuro dove i cardinali della penisola conteranno ancora di meno.

La vecchia Yalta attraversava sistemi politici e economici, la nuova Yalta è assente dai radar, gli attori della campagna elettorale oscillano tra la ricerca di punti di riferimento esterni (Renzi con Macron, Berlusconi con la Merkel, i 5 Stelle e la Lega con Putin) e l’incapacità di interrogarsi su dove si colloca il nostro paese e la sua classe dirigente diffusa nell’ordine mondiale che si sta costruendo. Perfino la polemica sulle fake news, da questo angolo visuale, ha qualcosa di fastidioso e di retrò. Vengono tirate in ballo le grandi potenze, le agenzie di spionaggio e di manipolazione come quelle mosse dallo zar di Mosca, e non ci si accorge che è finita la stagione in cui l’Italia, al pari della Germania, era popolata da spie e agenti degli apparati internazionali. All’epoca il nostro paese presidiava un confine strategico e centrale, oggi è finito nell’angolo marginale della foto di gruppo, non aspira più a una parte di protagonista nel nuovo assetto. Abbiamo perso (ancora una volta) la guerra, ma questa volta stiamo perdendo anche il dopoguerra.

E perde di senso anche continuare a chiedere a quale schieramento appartieni, se stai con Berlusconi o con Di Maio, se con Renzi o con la formazione che sta nascendo alla sinistra del Pd. In passato le coalizioni si facevano tra chi era al di qua o al di là del muro. Più facile, o più scomodo, a seconda dei punti di osservazione. Ma se si evade la domanda, se si rimuove il contesto in cui cade lo scontro elettorale italiano, se i personaggi del teatrino si agitano come burattini senza filo e senza progetto, qualunque alleanza e qualunque schieramento diventa possibile. E l’Italia potrebbe diventare il laboratorio di inedite formule politiche, una strana democrazia.

Nell’indifferenza verso il nuovo muro invisibile che ci attraversa: «C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo». Lo scriveva Alessandro Leogrande, che ci ha lasciato troppo presto, maledizione.