Il caso

Chelsea Manning ora è libera, ma la sua prigionia è stata un inferno

di Fabio Chiusi   18 maggio 2017

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Grazie a Obama, la fonte di Wikileaks ora è tornata in libertà. Ma è anche a causa dello stesso ex presidente  che i sette anni che ha passato in carcere sono stati, a loro volta, uno scandalo. Ecco tutte le facce di una vergogna che non deve ripetersi

La prima prigione di Chelsea Manning è di nemmeno due metri e mezzo per due metri e mezzo. È una cella a sbarre, rettangolare, in Kuwait. Per ventitré ore al giorno, per cinquantanove giorni dall’arresto a fine maggio 2010, l’allora ventiduenne Bradley non ha che sbarre, un bagno e una mensola. Niente parenti, niente amici. Niente tv e giornali. “Ho pensato di morire, in quella gabbia”, dirà a un giudice della Corte marziale, anni dopo. “Perché così la consideravo - una gabbia per animali”. 
 
Manning è la fonte di WikiLeaks, la causa di migliaia di cablo riservati della diplomazia americana sulle prime pagine di tutto il mondo. Il motivo per cui il pubblico ha visto Collateral Murder e ha potuto documentare svariati abusi - “cose incredibili, orrende” - dell’esercito USA in Afghanistan e in Iraq, fino a quel momento sconosciuti all'opinione pubblica. Il suo è dunque un servizio pubblico di valore inestimabile, al paese. Ma anche un terribile danno d’immagine e potere per il governo, l’esercito, le diplomazie.
 
Per quello Manning è un “animale” nelle mani dei carcerieri. Una bestia considerata pericolosa, e dunque da isolare. La seconda cella, infatti, è ancora più piccola: i metri questa volta non raggiungono i 2x2,5. Ora è a Quantico, in Virginia. E va peggio. Per i primi nove mesi, è in regime di massima sicurezza. 
 
Così lo racconta Andrew Blake, su Vice: “Manning poteva guardare la luce del sole per soli venti minuti al giorno, e in catene. Scoprì che, a volte, allungando il collo e posizionandosi all’angolatura giusta riusciva a scorgere un riflesso di sole proveniente da una finestra che si rispecchiava nel suo inimmaginabile inferno di cemento”. Per le restanti ventitré ore e mezzo circa, a Manning era tolto tutto, “compresi i contatti con gli altri prigionieri e, spesso, i suoi stessi vestiti. Veniva costretta a dormire dall’una del pomeriggio alle undici di sera, nuda, e lo poteva fare soltanto se rivolta verso la sua lampada”. 
 
Manning è considerata “a rischio suicidio”, e quindi sottoposta alle restrizioni più severe. Perché danza, racconta Blake, prova ogni possibile movimento: non venendo considerati “esercizio fisico”, non è proibito. Ma tutto il resto lo è. Gli oggetti personali non sono consentiti, a parte un libro o rivista alla volta; per l’“esercizio”, quel che è possibile, ha un’ora al giorno, in un’altra stanza vuota. 
 
“Ogni volta che vado osservo un declino, significativo, anche a livello fisico”, dice David House al Guardian di quel periodo. 
 
Il 2 marzo 2011 Manning scopre che la sua richiesta di uscire dall’isolamento viene negata: il prigioniero resta a massima sicurezza. Crudele e insensato, e Manning pare il Rubashov di Arthur Koestler quando restituisce testimonianza di che accade in seguito: “La notte mi vengono tolti tutti i vestiti. E mi è stato detto che il comandante intende continuare a farlo fino a data da destinarsi. Nessuno dei miei indumenti mi è stato restituito”. E ancora: “Di notte, se le guardie non riescono a vedermi chiaramente, perché ho il lenzuolo in testa o sono raggomitolato verso il muro, mi svegliano così da assicurarsi che io stia bene”. Tutto questo, si noti, non solo in assenza di una condanna: in assenza di processo. Quello di Manning è ancora “pre-trial confinement”. Detenzione preventiva, in sostanza.
 
In concreto, significa un’esistenza come questa: “Sono uscita dal letto e ho immediatamente cominciato a tremare per quanto freddo c’era nella cella. Ho camminato verso la parte frontale della cella coprendomi i genitali con le mani. La guardia mi ha detto di restare a “parade rest”, il che richiedeva tenere le mani dietro la schiena e le gambe divaricate. Sono restata in “parade rest” per circa tre minuti”.  
 
Manning, che già è affetta da un disturbo che porta a ritenere il proprio genere sessuale emotivamente e psicologicamente opposto a quello biologico, la “gender dysphoria”, subisce un abuso nell’abuso. “Ero incredibilmente in imbarazzo con tutte quelle persone a fissarmi, nuda”. Causa della reazione dei carcerieri? Un commento sarcastico di Manning in risposta alla sua condizione di soggetto considerato a rischio suicidio: “Se davvero mi volessi fare del male”, aveva detto a un ufficiale penitenziario, “potrei anche riuscirci con l’elastico delle mie mutande o con le ciabatte”. 
 
Quella del suicidio, argomenta Manning, è solo una scusa. Non la legge: abuso. E del resto, se fosse altrimenti, perché ridarle i vestiti di giorno? Al sole il suicidio è contemplato?
 
Finalmente, una settimana più tardi, qualcuno nell’amministrazione Obama si accorge che la situazione è insostenibile. P. J. Crowley, portavoce del Dipartimento di Stato sbotta a un seminario del MIT: “Ciò che sta venendo fatto a Bradley Manning è assurdo, controproducente e stupido”. E si dimette. 
 
Il che costringe lo stesso Barack Obama - quello da senatore giocava al paladino dei whistleblower, e da presidente ne ha perseguiti più di tutti i precedenti insieme - a intervenire finalmente sulla vicenda. “Rispetto al soldato Manning”, dice in una conferenza stampa del 10 marzo, “ho chiesto al Pentagono se le procedure in corso nel suo isolamento siano appropriate e soddisfino i nostri standard di base. Mi assicurano che lo fanno”. 
 
Peggio: Obama ripete la bugia dell’estrema sicurezza dovuta a istinti suicidi. “Non posso entrare nei dettagli, ma è anche per la salute del soldato Manning”. Per quello può strozzarsi con le mutande di giorno, ma non di notte. Perché è in regime di “prevenzione del danno” - l’esercito non ha mai specificato quale - si ignora il parere di uno psichiatra penitenziario che aveva chiesto di interromperlo già mesi prima.O almeno, questa è la logica dei carcerieri di Manning.
 
Ancora peggio: il mese seguente, il presidente viene immortalato in video a margine di un evento mentre afferma che Manning “ha violato la legge”. Non è nemmeno cominciato il processo. Ma gli USA, dice Obama, “sono un paese di leggi”. Lo sono? Lo Special Rapporteur Onu per la tortura, Juan Mendez, sembra dubitarne.

Il 29 febbraio 2012, Mendez compila un addendum alla sua relazione che contiene il risultato di quattordici mesi di indagine sul trattamento subito da Manning.
La conclusione è scioccante: “Undici mesi in condizione di isolamento - non importa come le autorità penitenziarie chiamino il suo regime carcerario - costituiscono come minimo un trattamento crudele, inumano e degradante in violazione dell’articolo 16 della convenzione contro la tortura”.
 
“Se gli effetti in termini di dolore e sofferenza inflitti a Manning fossero più gravi, potrebbero costituire tortura”, traduce Mendez, che poi al Guardian confida però di non essersi potuto sbilanciare parlando di tortura vera e propria per la semplice ragione che l’esercito gli ha costantemente negato di poter visitare il prigioniero “in circostanze accettabili”. Banalmente, potendo parlarci in privato. Impossibile, la risposta del Pentagono: “Non si deve aspettare alcuna privacy nelle sue comunicazioni con il soldato Manning”. Tutto va controllato: perfino il controllore. 
 
Ma il presidente ha ricevuto le sue rassicurazioni, e per lungo tempo tace. Tace, per esempio, quando Manning arriva a processo di fronte alla Corte marziale, e l’accusa - nella requisitoria finale - lo definisce “un anarchico”, un traditore della patria e dell’ordine costituito. “Il soldato Manning non è un umanista, ma un hacker”, tuona il Maggiore Ashden Fein, come se centinaia, migliaia di hacker non salvassero vite umane ogni singolo giorno.

“Non è un whistleblower, ma un traditore che ha pienamente compreso il valore delle informazioni compromesse nel caso dovessero finire nelle mani del nemico, e ha fatto deliberatamente i passi necessari ad assicurarsi che loro, insieme al resto del mondo, le ricevessero”. 
 
Se la Corte gli avesse dato ascolto, Manning sarebbe stato punito con la pena capitale, con l’accusa di “aiuto al nemico”. È un “paese di leggi”, del resto.
 
Finisce per prendere 35 anni, Bradley, colpevole di 20 dei 21 capi d’accusa, ma non del più grave. Ma Bradley è ormai Chelsea, e la battaglia è per un altro ordine di libertà: quella, fondamentale, della sua identità sessuale. Una battaglia che fino a quel momento le istituzioni statunitensi hanno o ignorato o, più spesso, combattuto contro Manning.
 
David E. Coombs, il suo legale, lo dice chiaramente in una dichiarazione del 22 agosto 2014: “Il fallimento dell’esercito nel fornire adeguate cure mediche risale all’aprile del 2010”. Già allora, ricorda Coombs, “Chelsea aveva inviato al suo supervisore una email intitolata “Il mio problema”, insieme a una foto di lei vestita da donna. Nell’email, Chelsea descriveva con doloroso grado di dettaglio come la sua gender dysphoria stesse impattando sulla sua vita. Gli aveva rivelato di credere che la carriera militare avrebbe eliminato il problema, ma lo aveva invece solo peggiorato”. 
 
Al punto che per Manning la vita è “un incubo senza fine”. Il supervisore lo sapeva, ma non ha agito. Ha agito Manning, invece: contattando Adrian Lamo nella chat che finirà per incriminarla, in cui il crollo emotivo coincide con l’ammissione di essere la fonte di WikiLeaks. 
 
Il brutto sogno prosegue negli anni della prigionia e dei soprusi in Kuwait e a Quantico, dove di nuovo, perfino a fronte di una nuova diagnosi di gender dysphoria, nessuno interviene. E non cessa nemmeno di fronte alla battaglia, di mera civiltà, per ottenere dal governo USA almeno il trattamento ormonale per cambiare sesso in carcere, una volta stabilita la sua colpevolezza. 
 
A settembre 2014, dopo oltre un anno dalla richiesta, l’ACLU è costretta a denunciare il governo per ottenere una giustizia che non viene mai. Perché, per l’avvocato Chase Strangio, l’inspiegabile inazione delle autorità continua nel frattempo a procurare danni psicologici a Manning. “Una così chiara violazione di protocolli medici ben stabiliti costituisce una punizione crudele e inusuale”, afferma. 
 
A febbraio dell’anno seguente, Manning comincia a ricevere la terapia ormonale. Ma ad agosto è di nuovo isolamento. E di nuovo il motivo è futile. Chelsea rischia di restarci indefinitely perché in possesso di un tubetto di dentifricio scaduto, di una copia di Vanity Fair e di una di una rivista per i diritti LGBT, dell’autobiografia della Nobel per la Pace, Malala Yousafzai e - incredibilmente - del rapporto del Senato statunitense sulla tortura. 
 
Per ottenere il trattamento chirurgico, una prima volta per gli Stati Uniti, resta in sciopero della fame, finché le autorità non si decidono. “Mi complimento”, scrive Manning, “era tutto ciò che volevo - che mi lasciassero essere me”. 
 
Ma è settembre 2016, e nel mezzo c’è stato un tentativo di suicidio, a luglio, dovuto secondo i legali proprio alle resistenze e ai rifiuti del governo sul trattamento della sua gender dysphoria. 
 
Anche qui, i dettagli sono da ‘Buio a mezzogiorno’: il tentato suicidio - causato e non evitato, si noti, dal trattamento carcerario - porta Manning a una ulteriore condanna a due settimane di isolamento. Ora è a Fort Leavenworth, in Kansas, ma la minaccia sembra essere sempre la stessa: indefinite solitary confinement
 
La stessa pratica che il presidente, all’epoca, sembra ancora rifiutare di applicare a Manning, e tollerare. È lontano il pardon presidenziale di gennaio 2017; non ancora scritto l’editoriale sul Washington Post in cui Obama, evidentemente non lo stesso del 2011, sentenzia: “La ricerca suggerisce che l’isolamento abbia il potenziale di condurre a conseguenze psicologiche devastanti e durevoli. È stato collegato a depressione, alienazione, abbandono, una ridotta abilità di interagire con gli altri e il potenziale di comportamenti violenti. Alcuni studi indicano che possa aggravare le malattie mentali esistenti e perfino scatenarne di nuove. I prigionieri in isolamento”, scrive Obama quasi a smentire il se stesso che aveva fino ad allora minimizzato sulle condizioni di Manning, “hanno maggiori probabilità di commettere suicidio”.
 
Possibile non avesse compreso nella categoria Manning, quando scrive: “Mi sento ferita. Mi sento sola. Mi vergogno di quella decisione”, la condanna all’isolamento. “Non so come spiegarla”.
 
Difficile riuscirci con il solo manuale delle democrazie, specie quando essere in possesso di un libro su Anonymous - il migliore, di Gabriella Coleman - costituisce un ulteriore capo d’accusa. 
 
Il crimine? “Condotta minacciosa”. Attentando alla propria vita, Manning ha interferito con “l’ordinato procedere, la sicurezza, la disciplina” della prigione. A nulla valgono le raccomandazioni degli esperti di tutto il mondo, gli studi che dimostrano che il 73 per cento dei suicidi in carcere avviene in isolamento. 
 
Deve giungere un secondo tentativo di suicidio, in novembre. “È un assalto demoralizzante e destabilizzante alla sua salute e alla sua umanità”, dice Strangio. “Chelsea è stata punita ripetutamente per cercare di sopravvivere, e ora viene ripetutamente punita per cercare di morire”.
 
Poi viene il termine del secondo mandato Obama, la riduzione presidenziale della pena a sette anni. E, nelle scorse ore, finalmente i primi passi di libertà immortalati da Chelsea su Instagram. 
 
È successo di tutto, nel mezzo. Dal 2010 a oggi il leaking è passato da rivelazione a metodo, la guerra ai whistleblower e giornalismo d’inchiesta una persecuzione scientifica - e i casi di violazioni dei diritti delle persone in carcere si susseguono, come sempre. 
 
Che Manning sia sopravvissuta è un miracolo, e un’attestazione della sua forza di volontà e insieme di quella dei tanti che, anche grazie ai social media, hanno costruito per anni reti di supporto morale e finanziario. 
 
Ma è bene ricordare che Manning ha comunque patito una punizione, e molto severa, per avere diffuso documenti di chiaro interesse pubblico. Riservati, e non intesi per l’occhio dei cittadini, certamente: ma che a loro invece appartenevano. 
 
Manning, durante il processo, ha dovuto ammettere di sbagliarsi, a pensare di “cambiare il mondo”. Il sogno di una persona fragile, problematica, dipinta alternativamente come un misterioso genio-nerd del male o un bizzarro oggetto post-sessuale. 
 
E invece Manning lo ha cambiato davvero. È stata la prima pietra di una frana che ancora oggi stiamo imparando a decifrare, fatta di un soggetto imprevedibile come WikiLeaks ma anche di altri Manning, e altri ancora con meno scrupoli - di cui MacronLeaks e WannaCry sono soltanto le ultime e più discusse derive.
 
Ma Chelsea non ha diffuso “fake news”: ha dato, piuttosto, un quadro più completo del reale, lo ha arricchito. E lo ha fatto a costo della propria incolumità e libertà, della propria vita. Quella stessa che chi l’ha definito “criminale” ha messo ripetutamente a repentaglio con scelte o non scelte insensate, gratuitamente punitive.
 
Sì, anche del presidente a cui oggi deve il ritorno al mondo dei liberi.