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Perché i servizi segreti sono diventati il nemico numero uno di Donald Trump

donald trump
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Dietro le quinte degli scoop che stanno inguaiando il presidente sotto varie forme (documenti, memo, frasi carpite), la mano dell'intelligence è evidente e le soffiate che arrivano ai media sembrano seguire una logica studiata con cura

donald trump
Questo è un altro brutto colpo nei rapporti tra il presidente e l’Intelligence. La cosa è destinata a peggiorare». Quando lunedì 15 maggio Michael V. Hayden legge il Washington Post non crede ai suoi occhi; che il presidente degli Stati Uniti potesse spiffera re ai russi (e per di più nello Studio Ovale) un’informazione “top secret” sulla guerra allo Stato Islamico - rivelata ai servizi Usa da una fonte alleata - era cosa mai vista, da non credere neanche fosse una fiction tv. Il generale a quattro stelle, uno dei pochi uomini che conoscono tutti i segreti più nascosti della recente storia Usa - ai vertici di Cia e National Security Agency sia con la Casa Bianca repubblicana che con quella democratica (Clinton, Bush Jr., Obama) - è stato facile profeta: quello tra The Donald e Intelligence è ormai scontro aperto, una di quelle battaglie non dichiarate che alla fine potrà avere un solo vincitore.

Nella “guerra per bande” in corso nei palazzi che contano di Washington, in prima fila contro il presidente più impopolare di sempre (i sondaggi Gallup sul tema risalgono agli anni Trenta) sono schierati grandi giornali, siti online e network tv, ma dietro le quinte degli scoop (reali) che stanno inguaiando Trump sotto varie forme (documenti, memo, frasi carpite), la mano dei servizi è piuttosto evidente e le “soffiate” che arrivano ai media sembrano seguire una logica studiata con cura. La parte del leone la fanno New York Times e Washington Post, i due quotidiani che hanno nella loro storia i grandi scoop che nei primi anni Settanta hanno affossato Richard “Tricky” Nixon, il presidente “truffaldino” convinto (a torto) di essere più furbo di tutti.

Anche lui (ma dopo anni che si era insediato alla Casa Bianca) aveva finito per inimicarsi l’Intelligence e il grande accusatore che lo incastrò (la famosa “gola profonda” del Watergate) altri non era - ma l’identità venne rivelata solo nel 2005, 31 anni dopo le dimissioni di Nixon - che Mark Felt, numero due del Fbi. Nel caso di Trump la storia è alquanto diversa e il suo personale conflitto con i “federali” risale a ben prima del suo giuramento come “Commander in Chief”.

Tutto ha avuto inizio circa un anno fa. Erano i primi mesi delle primarie repubblicane e The Donald si stava imponendo a sorpresa sui candidati dell’establishment guidati dall’ultimo Bush (Jeb) finendo (come ovvio) sotto i riflettori dei media e dei segugi pagati dagli avversari. Messe in giro dallo staff di Trump iniziarono a circolare sui social network (Facebook e Twitter in primis) accuse via via sempre più esplicite ai «servizi segreti al soldo di Obama-Hillary e in combutta con l’élite del Grand Old Party» per fermare la corsa del tycoon verso la candidatura. Accuse (mai dimostrate), critiche e “fake news”, che sono continuate fino alle elezioni, nonostante l’Fbi (grazie al suo direttore James Comey) fosse intervenuto in modo piuttosto anomalo sulla questione delle “email di Hillary” a poche settimane dal voto favorendo proprio Trump.
Donald Trump

Quando poi apparvero le prime notizie sulle interferenze del Cremlino nel processo elettorale, The Donald scese in campo personalmente, attaccando a testa bassa (con i suoi tweet compulsivi) chiunque ipotizzasse legami suoi o del suo staff con la Russia. La pubblicazione (avvenuta dopo le elezioni) di un documento comune di Homeland Security e Director National Intelligence («siamo convinti che il governo russo sia direttamente coinvolto negli hackeraggi e nei furti di email di organizzazioni degli Stati Uniti e di cittadini americani») segna l’inizio di quello che ben presto prende il nome di Russiagate. Un “secret assessment” della Cia aggiunge e precisa che «la Russia, oltre che per minare il processo elettorale è intervenuta per aiutare Trump a vincere le elezioni».

La reazione di The Donald non si fa attendere, annuncia che «accenderà un riflettore» sulle attività della Cia e di altri servizi di Intelligence definiti «incapaci» a cui rinfaccia gli insuccessi del passato e le «invenzioni sulle armi di Saddam» che hanno portato alla guerra in Iraq. Quanto alla Russia «tutte notizie false, non ci sono state interferenze, l’Intelligence non ha alcuna prova». Quelle che sembravano scaramucce verbali si trasformano tra fine gennaio e inizio febbraio (a cavallo con il giuramento di Trump) in uno scontro senza esclusione di colpi.

Per capire quanto Trump sia poco amato da quella vasta comunità che ruota attorno all’Intelligence (e ai militari) basta dare un’occhiata ai risultati elettorali nei distretti della Virginia dove vivono in prevalenza agenti, famiglie e amici. L’8 novembre scorso, mentre quasi ovunque i repubblicani guadagnavano terreno, nelle contee più vicine a Washington D.C. e a Capitol Hill Trump perdeva i maggiori consensi proprio nelle aree dove abitano “civil servants” di ogni genere. Hillary Clinton - che viene sconfitta in Stati tradizionalmente democratici come Pennsylvania, Wisconsin o Michigan - conquista la Virginia con il 49,7 per cento contro il 44,1 del suo avversario e Trump diventa il primo repubblicano dai tempi di Calvin Coolidge (1924) a conquistare la Casa Bianca perdendo la Virginia. È in quelle villette della Virginia a ridosso della capitale Usa che si cementa il patto contro il presidente, è in quella comunità che i mugugni si trasformano nel giro di un paio di mesi in azione. Sotto forma di leaks, sapienti fughe di notizie.

l'analisi
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6/4/2017
Che l’Intelligence si preparasse «alla guerra nucleare» contro la Casa Bianca qualcuno lo aveva preannunciato. Come John Schindler, un passato alla National Security Agency, un presente da consulente per il controspionaggio. A febbraio Schindler racconta di aver ricevuto una email da un alto funzionario dell’Intelligence sul presidente che iniziava cosi: «Morirà in carcere». Frase paradossale ma che illustra bene il clima che si respira oggi nella capitale dell’impero d’occidente. Dietro le rivelazioni ai giornali una (o diverse) “Deep Throat 2017” agisce all’interno della stessa amministrazione e non si tratta di funzionari di piccolo cabotaggio. A Washington i rumors corrono veloci, circolano le ipotesi più incredibili che lambiscono i più potenti consiglieri del presidente.

Gole profonde che agiscono, senza esclusione di colpi, pro o contro Trump. Ezra Cohen-Watnick, il Senior Director (anche se ha 31 anni appena compiuti) del National Security Council (Nsc) è considerato l’autore (in chiave pro-Trump) delle soffiate, smentite dall’Intelligence, sulle intercettazioni volute da Obama contro il suo successore. Il nome del generale McMaster - il Consigliere per la Sicurezza Nazionale che ha preso il posto del generale Flynn costretto alle dimissioni per i suoi legami con Putin - viene “mormorato” come difensore del presidente e allo stesso tempo come possibile nemico. Chiunque ha incarichi di rilievo nelle varie agenzie di Intelligence viene sospettato di essere il nuovo Mark Felt.

The Donald si era convinto che dietro i leaks ci fosse il direttore del Fbi in persona e per questo ha deciso di licenziare Comey. Se sperava veramente di bloccare le indagini del Fbi sul Russiagate ha fatto male i propri calcoli, è la storia stessa degli Stati Uniti a ricordarcelo. Ogni tentativo di insabbiamento si è (quasi) sempre ritorto contro il suo autore, producendo nuove fughe di notizie e alzando il livello delle indagini. Si è illuso di mettere paura alle nuove “gole profonde” e le fughe di notizie si sono moltiplicate, le ultime uscite (rompendo una tradizione di fair-play) mentre l’Air Force One era già in volo per il primo viaggio internazionale di Trump (Arabia Saudita, Israele, Vaticano, Nato, G7).

Per Jeff Ringel, veterano del Fbi - 21 anni nel Bureau fino a maggio 2016, oggi direttore del gruppo Soufan (un’azienda privata che fornisce servizi di “strategic security intelligence” a governi e multinazionali) - è il licenziamento di Comey la goccia che ha convinto anche i più scettici all’interno del Bureau a schierarsi contro Trump. «Gli agenti possono non essere d’accordo con tutto quello che ha fatto, io ero uno di coloro che pensavano che non avrebbe dovuto fare quelle dichiarazioni pubbliche sulle email di Hillary Clinton, ma la decisione di Trump è stata uno schiaffo in faccia a tutto l’Fbi.

Comey era uno degli uomini più onesti della capitale, gli agenti sono infuriati per il modo in cui è stato licenziato, per la totale mancanza di rispetto nei suoi confronti. Trump lo ha chiamato incompetente, dimostrando il suo totale disprezzo per il Bureau». Nei giorni successivi al licenziamento di Comey, The Donald ha provato a ricucire con il Bureau, ma in qualche caso ha finito per peggiorare la situazione. Come quando ha fatto sapere che un possibile nuovo direttore Fbi poteva essere Andrew McCabe, vice di Comey e “reggente” dopo il licenziamento di quest’ultimo. Il quale, convocato dal Congresso, ha dichiarato che le indagini sul Russiagate «andranno avanti senza guardare in faccia nessuno».

Con la nomina di Robert Mueller III (direttore del Fbi nei due mandati di George Bush e nel primo di Obama) a “special counsel” per le indagini sui rapporti tra la Russia di Putin e la Casa Bianca, Trump ha ottenuto una mome ntanea tregua, ma al suo rientro oggi alla Casa Bianca dopo il battesimo internazionale dovrà tornare a fare i conti con le indagini e tre commissioni d’inchiesta al Congresso. L’uomo-chiave per il suo futuro resta il genero Jared Kushner. Il giovane e pragmatico marito di Ivanka (che proviene da una famiglia ebraica e democratica del New Jersey) nei primi mesi dell’amministrazione era stato il volto moderato del trumpismo, consigliere-principe che aveva posto un freno al populismo sfrenato (e razzista) di Steve Bannon. Adesso anche lui è finito nel mirino dell’Intelligence.

Difficile prevedere cosa accadrà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Per chi ama i ricorsi storici una segnalazione: Richard Nixon nel giugno del 1974 (in piena bufera Watergate) fece un viaggio in Arabia Saudita e Israele: l’8 agosto dello stesso anno si dimise da presidente degli Stati Uniti.

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