Ahmed viveva a Mosul ed è stato un miliziano dell'Isis da quando aveva 13 anni. Ora è in custodia presso l'intelligence irachena e spiega perché vuole immolarsi per il Califfato e uccidere più nemici possibile. Come lui sono migliaia i giovani che hanno subito il lavaggio del cervello e pensano solo al martirio

"Ho 16 anni ?e voglio morire in nome di Allah"

Ahmed ha sedici anni e il sorriso provocatorio degli adolescenti, quando parla sfida il suo interlocutore con lo sguardo. Non ha paura di dire ciò che pensa: vorrebbe morire in nome di Allah. Ahmed fino a quindici giorni fa viveva a Mosul Ovest: era un miliziano del Califfo ?e ha anche perso una gamba durante un bombardamento della coalizione sul suo campo di addestramento. Poi è finito nelle mani dell’intelligence irachena che ora lo tiene nascosto in una casa di Qayyara, ?a sud di Mosul. E lì L’Espresso è riuscito ?ad incontrarlo. Quando arriviamo Ahmed siede su un divano, sta guardando annoiato un film americano.

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Quando ha giurato fedeltà ad Al Baghdadi, ci racconta, aveva solo tredici anni. «Le nostre famiglie non sapevano nulla, io l’ho deciso con i miei amici più cari. Eravamo il centro del mondo, la capitale del Califfato».
La voce di Ahmed è piena di rabbia, ?di risentimento, di desiderio di rivalsa.

La sua invalidità, spiega l’ufficiale dei servizi segreti, gli ha impedito di diventare un martire e il martirio è l’onore dei giovani del Califfo. «Il martirio è l’obiettivo finale dei combattenti dello Stato islamico, è il desiderio di ogni combattente. E il grado più alto di tutti i martiri è la missione suicida». Ahmed ripete queste parole come una litania poi descrive l’organizzazione gerarchica della morte: ?le missioni suicide sono decisive nel determinare la vittoria sul campo di battaglia, quindi valgono di più, portano ?più velocemente in paradiso. Morire dopo essere stati feriti dal nemico o morire sotto un bombardamento non ha lo stesso peso. E lui, con una gamba in meno, ?non ha potuto portare a termine la sua missione suicida su un’autobomba.

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«Per partecipare a una missione di martirio bisogna aspettare il proprio turno, e spesso i soldati in fila sono centinaia. ?Il desiderio di ogni martire è ottenere ?un Hummer o un pick-up Silvador. Tutti vogliono i veicoli più grandi, perché uccidono più persone. E più il combattente uccide, più sarà ricompensato». Chi non riesce ad ottenere un’autobomba, ha ?il compito di farsi saltare in aria con ?la cintura esplosiva: «Premi l’interruttore appena vedi il nemico. Trovi te stesso ?e gli infedeli sono spazzati via».

Le strade di Mosul oggi sono piene di cadaveri di miliziani dell’Isis morti così, lanciati contro il nemico per morire saltando in aria in nome di Allah. «Tutti vogliono morire. Tutti ?i ragazzi vogliono morire», ripete Ahmed , «Tre dei miei più cari amici sono dei martiri, uno di loro era il figlio del farmacista, famiglia ricchissima. Aveva quindici anni ?e l’ha chiesto così tanto che alla fine gli hanno consegnato una borsa, uno zaino con un detonatore, l’ha indossato ed ?è andato verso una base dell’esercito iracheno. Ha ucciso nove infedeli!».

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Ahmed racconta anche di aver visto arrivare centinaia di foreign fighter: dalla Francia, dal Belgio, dall’Asia centrale (Azerbaijan, Tajikistan), da soli o con ?le famiglie, «arrivavano da tutto il mondo ?per diventare martiri». Finché un giorno, ricorda il ragazzo, il comandante ha tenuto un discorso pubblico alla presenza di centinaia di foreign fighter invitandoli a tornare a casa, a convincere i propri amici e parenti a restare in Europa, perché l’Europa sarebbe stato il prossimo campo di battaglia «siamo già abbastanza qui, restate in Europa e uccidete. Se non riuscite a trovare delle armi prendete ?i coltelli e uccideteli nelle strade affollate, usate le automobili, date fuoco ?alle loro case. Uccidete i loro figli».
foto di A. Romenzi

Sono circa mezzo milione i ragazzi ?e bambini vissuti per tre anni sotto il controllo dello Stato Islamico, educati ?al martirio, a combattere e a uccidere. ?E c’è chi vorrebbe ucciderli tutti senza distinzione d’età: «Non c’è salvezza possibile per loro, tanto vale ammazzarli», ci ha detto un soldato a Badosh.

L’ufficiale dei servizi segreti chiama Ahmed “un sopravvissuto” ma quando gli chiediamo cosa ne sarà di queste centinaia di migliaia di ragazzini pronti a morire, scuote la testa rassegnato : «L’Iraq non è pronto a reinserire questi ragazzi».

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L’Iraq non è pronto e Ahmed non ha paura di parlare, neppure di fronte all’ufficiale che lo tiene in custodia. La sua spinta al martirio è così forte da non avere neppure la furbizia di fingersi pentito. Anzi, usa parole di sfida: «Se pensate che gli ideali dell’Isis finiranno con la guerra, vi sbagliate di grosso. Le ultime settimane di guerra saranno le peggiori. E anche dopo gli ideali del Califfato sopravviveranno. Sbarazzarsi di noi è come sbarazzarsi ?del Corano: impossibile. Perdere Mosul ?o Raqqa non significa perdere la nostra gente, noi siamo la gente del futuro ?e anche se questa guerra è persa, ?il messaggio continuerà fino alla fine ?del mondo. Noi, come bambini e ragazzi, siamo la parte più importante di Isis, perché siamo il futuro delle idee del Califfo. Il Jihad non è mai finito. E non finirà. I nostri capi ci hanno detto che perdere territorio è una fase transitoria, che la nostra generazione ha l’obiettivo ?e il dovere di iniziare una nuova fase del Califfato e con la forza di Allah arriveremo a Roma e Gerusalemme».

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