La sconfitta dello Stato Islamico è ancora lontana
Per battere l'Isis non basta liberare le sue roccaforti più simboliche. Bisogna tagliare alla fonte i canali di finanziamento. Parla Ilter Turan, docente di Relazioni Internazionali a Istanbul e alla Columbia University
Non è un caso, anche secondo il professor Ilter Turan, che l’Arabia Saudita, e di conseguenza i Paesi del Golfo, del Vicino Oriente sotto la sua influenza, abbiano deciso di isolare il Qatar subito dopo la ritrovata intesa con gli Stati Uniti in seguito all’accordo politico-economico siglato con il presidente Trump a Riyad. «L’Arabia Saudita dipende economicamente dagli Stati Uniti e non avrebbe aperto questa inedita crisi diplomatica con un Paese arabo limitrofo se la Casa Bianca non fosse stata d’accordo.
Ma il sostegno allo Stato islamico da parte del Qatar non è certo la vera ragione della disputa, essendo noto che anche numerosi enti “caritatevoli” e cittadini sauditi lo hanno finanziato. Non fosse altro perché l’oscurantista dottrina islamico-wahabita custodita e seguita dalla famiglia regnante e dalla popolazione saudita è stata adottata fin dall’inizio dal Califfo al-Baghdadi per governare ed educare le popolazioni dei territori iracheni e siriani finora conquistati dai suoi tagliagole». Turan, già rettore e oggi professore emerito di Relazioni Internazionali alla Bilgi University di Istanbul, docente presso le più autorevoli università americane come la Columbia University di New York, nonché presidente dell’Ipsa, la più prestigiosa associazione internazionale di Scienze politiche, non nasconde che la situazione nell’area sia molto preoccupante e tutt’altro che in via di stabilizzazione. Anzi, siamo di fronte - sostiene - a un altro momento critico, nonostante l’Isis stia perdendo terreno. Come cittadino turco, poi, Turan, è ancora più coinvolto a causa della decisione del capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, di schierare apertamente la Turchia al fianco del Qatar.
Professor Turan, innanzitutto ritiene che lo Stato islamico stia per essere sconfitto, visto che è iniziata la settimana scorsa l’offensiva curdo-statunitense per liberarne la capitale de facto, Raqqa, mentre a Mosul i terroristi islamici sono asserragliati in un’area ormai molto ristretta? «Non credo. Per sconfiggere l’Isis non basta liberare le sue roccaforti rispettivamente in Iraq e Siria, cioè le città di Mosul e Raqqa, piuttosto bisogna seccare i canali e i finanziamenti con cui questa organizzazione terroristica compra le armi e paga gli stipendi ai suoi uomini sul campo. Si tratta di un’operazione molto complessa, perché i proventi vengono da molte fonti, tra cui la vendita di droga. La settimana scorsa la Marina turca ha intercettato e bloccato una nave carica di eroina che forse serviva a questo scopo. Inoltre i finanziamenti che finiscono all’Isis sono difficili da tracciare, provenendo da vari Paesi del mondo, per non parlare del fatto che per diventare un soldato del Califfo basta armarsi di coltelli da cucina o di una macchina e dirigerla contro passanti innocenti nelle strade del pianeta. L’isolamento del Qatar da parte di altri Paesi arabi non aiuta a rendere le cose meno difficili da risolvere».
Se il Qatar non è stato isolato a causa dei finanziamenti e del sostegno all’Isis, qual è il vero motivo? «Che il Qatar è il maggior esportatore di gas liquido, primato che ha soffiato all’Arabia Saudita anni fa. In più, Doha ha buoni rapporti con l’Iran, con cui condivide un enorme giacimento di gas. L’Iran sciita è la potenza regionale che contende all’Arabia Saudita sunnita il controllo della regione e Riyad non ha digerito il fatto che anche l’attuale emiro del Qatar, Tamim Hamad al-Thani, ritenga necessario cooperare o almeno dialogare con l’Iran, anziché fargli la guerra per procura in Siria».
Si riferisce anche agli scambi di prigionieri e ai recenti accordi informali tra Qatar e Iran che hanno permesso il trasferimento di gruppi di civili siriani da una zona all’altra del Paese in base all’appartenenza religiosa e politica di ognuno di loro? «Sì, questa cooperazione è avversata dall’Arabia Saudita e dalla nuova amministrazione americana. I sauditi vogliono dirigere l’orchestra da soli, non assieme al Qatar e non sono disposti a tollerare che Doha continui a cogestire la questione siriana».
Anche il fatto che Doha sia il punto di riferimento della Fratellanza musulmana, l’organizzazione politico-confessionale che contende a Riyad la corretta interpretazione del Corano e la leadership culturale dell’islam sunnita, fa parte delle ragioni per cui c’è stata questa frattura? «È così. La Fratellanza musulmana è tra l’altro un’organizzazione che nei decenni, nonostante fosse stata messa fuori legge dall’ex presidente egiziano Mubarak, ha aiutato molto le persone più bisognose con programmi di assistenza alimentare, sanitaria ed educativa. Lo ha fatto anche nella Striscia di Gaza, in Turchia e nel Nord Africa. L’interpretazione del sunnismo, assieme alla visione della società che propone la Fratellanza sono, dettaglio non secondario, vissute da chi professa il wahabismo come una minaccia. Sono correnti rivali».
Il generale-presidente egiziano Al-Sisi e il premier israeliano Netanyahu beneficiano dell’isolamento del Qatar, avendo entrambi come nemici la Fratellanza, oltre che l’Iran? «Al-Sisi, avendo deposto e fatto arrestare il presidente Morsi, che era l’esponente politico di punta della Fratellanza, con migliaia di altri esponenti, attirandosi le critiche di Al Jazeera - l’emittente internazionale che appartiene al Qatar- non può che esserne contento e così Netanyahu, poiché la nemica Hamas, dalla Striscia di Gaza, aderisce all’organizzazione. Tanto che il suo leader in esilio, Khaled Meshaal, vive da anni a Doha».
E infatti anche il presidente turco Erdogan, sostenitore della Fratellanza, ha mandato in questi anni di governo Hamas molti aiuti umanitari e contribuito alla ricostruzione della Striscia come ha fatto e fa il Qatar. Ma il Qatar sta anche supportando economicamente la Turchia in questi ultimi tre anni di crisi economica con investimenti, scambi commerciali e accordi in ambito militare. L’immediata decisione di Erdogan di schierarsi a fianco dell’emiro al-Thani è dovuta a tutti questi fattori? «Il signor Erdogan, per questa comune appartenenza alla Fratellanza e per mantenere i rapporti economici con il Qatar che aiuta la nostra economia e anche perché non vuole problemi con il limitrofo Iran, con cui la Turchia condivide rotte commerciali, si è subito attivato. Ma si tratta di una situazione molto delicata, che richiede grande prudenza, perché in gioco ci sono l’identità dell’Islam, la leadership del mondo islamico e i rapporti con le potenze internazionali».
Il presidente Erdogan, due giorni dopo l’isolamento del Qatar, ha firmato la legge approvata con una corsia preferenziale dal Parlamento di Ankara che prevede l’invio di soldati e gendarmi nella base turca in Qatar. Non pare un segno di prudenza? «Si tratta di un accordo stabilito due anni fa e parte di un pacchetto di norme sulla cooperazione militare che comprende anche l’addestramento di forze della gendarmeria qatarina. Certo, è stato ratificato prima del previsto. Dobbiamo attendere per capire se siamo di fronte a una decisione giusta».
Come sempre accade quando si cerca di capire come stiano veramente le cose in Medio Oriente, c’è chi sostiene, mappe alla mano, che il problema risieda nell’eterna lotta per il gas del Golfo e, in questo caso, per la volontà dei qatarini di creare un nuovo corridoio energetico che li colleghi all’Europa attraverso la Turchia, attirandosi l’ira dell’Arabia Saudita e persino della Russia, che non vuole altri rivali nell’esportazione del gas. Lei cosa pensa di questa analisi? «Che il Qatar è già il primo esportatore di gas liquido del pianeta. Non mi sembra necessario aggiungere anche questo tassello per avere una visione d’insieme di questo già complicato mosaico».