
Samir ha preparato la propria morte rituale con giorni di preghiera, meditazione, digiuno e lettura del Corano. Terminata la preparazione spirituale, quando si sentirà pronto avvertirà i suoi correligionari, che lo porteranno all’obitorio, secondo tradizione lo laveranno e lo avvolgeranno in un sudario, quindi lo lasceranno in una tomba al cimitero. Lì per tutta la notte Samir, virtualmente morto, cercherà l’ispirazione dei compagni di Maometto, modelli di moralità; se questa connessione con gli “antenati” sarà riuscita, il giovane egiziano si sentirà purificato e riprenderà la propria vita come musulmano rinato.
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Mohamed Samir è uno studente di sharia, l’insieme delle leggi religiose che regolamentano la vita dei musulmani; ma soprattutto è un salafita, membro cioè di una scuola di pensiero sunnita - il salafismo appunto - che si ispira ai salaf, i “Pii Compagni del Profeta”, modelli esemplari di virtù religiosa i cui valori e comportamenti tutta la comunità dei credenti (la Umma) dovrebbe seguire.
Negli ultimi anni il salafismo sunnita ha fatto molto parlare di sé ovunque, Italia compresa, perché è stato indicato da molti commentatori occidentali come ideologia del radicalismo islamista e del terrorismo jihadista, sia di Al Qaeda sia dell’Isis; perciò i salafiti sono stati spesso etichettati tout-court come terroristi. Ma la realtà è più complessa degli schemi. Il salafismo, seguìto oggi da oltre cinquanta milioni di persone in tutto il mondo, è una galassia di movimenti e di sigle estremamente eterogenea al proprio interno, con posizioni molto diverse sia riguardo alla violenza sia riguardo alla semplice attività politica, entrambe storicamente rifiutate dalla gran parte dei salafiti.
Samir fa parte appunto di una comunità di pacifici mistici, solo marginalmente interessati alla politica, che si raccolgono intorno alla città egiziana di Mansoura; come tanti altri salafiti lui e i suoi confratelli cercano la purezza dell’Islam delle origini, sforzandosi di vivere una vita spirituale la più vicina possibile a quella di Maometto e degli “antenati”. L’odierno salafismo è una corrente fortemente tradizionalista e antimoderna. Qualche esempio? I salafiti hanno una visione della donna incompatibile con la nostra idea dei diritti civili, contestano le classi miste nelle scuole, considerano la democrazia multipartitica un pericolo perché portatrice di divisioni, con il rischio (secondo loro) che una parte della società schiacci le altre rompendo l’unità della Umma, la comunità dei credenti.
«Credo che i salafiti della città di Mansoura mi abbiamo permesso di entrare nella loro comunità, fino a fotografare riti quasi segreti come la morte rituale di Samir, proprio per documentare che loro non sono terroristi e che non vogliono essere confusi con chi persegue una cieca violenza», spiega Paolo Pellegrin, autore delle foto in queste pagine, oltre che di una pluriennale inchiesta sulle cosiddette primavere arabe (e su ciò che ne resta), diventata un libro che nel 2017 ha vinto il Premio Marco Bastianelli nella categoria Best Book Photo in Italy: “Terre spezzate. Il grande caos del mondo arabo” (editore Contrasto).
Nel grande caos del mondo arabo i movimenti salafiti si profilano sempre più come attori di primo piano, in particolare in Egitto. Le radici del cambiamento affondano nel 1984, con la nascita ad Alessandria d’Egitto di Ad-Da’wa As-Salafiya, cioè l’Appello - o la Predicazione - Salafita, importante organizzazione che propugna l’educazione religiosa e la diffusione dei valori islamici nella società, ma senza entrare in politica e quindi tenendosi ben lontana da partiti ed elezioni. In ciò il movimento salafita contestava apertamente la ben più antica e radicata organizzazione dei Fratelli Musulmani (nata anch’essa in Egitto, nel 1928), che ha scelto di portare l’Islam nell’arena politica, favorendo la formazione di partiti islamisti.
Ma la grande svolta avviene con la cosiddetta Primavera araba del 2010-2011, quando i salafiti, in Egitto e non solo, nonostante la loro visione tradizionalista si uniscono alle proteste anti-regime condotte dai liberali e dai progressisti. Nel pieno del terremoto politico del 2011 Ad-Da’wa As-Salafiya decide che esiste un rischio di de-islamizzazione dell’Egitto e per evitarlo fonda un vero partito politico salafita, chiamato Al Nour (La Luce), che sfida i Fratelli Musulmani sul loro stesso terreno; alle elezioni politiche il neonato partito salafita sorprende tutti, piazzandosi al secondo posto con il 25 per cento dei voti, dietro appunto ai Fratelli Musulmani, che salgono al potere conquistando con Morsi la presidenza dell’Egitto.
Il secondo atto della svolta è del 2013, quando in Egitto avviene il colpo di stato militare che depone Morsi, pone alla presidenza il generale al-Sisi, scioglie il partito espresso dai Fratelli Musulmani e mette fuorilegge l’organizzazione stessa. È l’inizio della fase attuale, caratterizzata da due fattori.
Il primo è l’inasprimento della repressione politica, con l’aumento delle sparizioni e dei casi di tortura (ricordiamo fra le vittime innocenti il ricercatore italiano Giulio Regeni) e la proclamazione del nuovo stato di emergenza nonostante il quale (o forse a causa del quale) si registra un aumento di attacchi terroristici e di infiltrazioni di islamisti armati da Gaza, dalla Libia e dal Sudan. È una guerra che si combatte anche sul piano culturale: Al Azhar, la più prestigiosa università islamica del mondo arabo, contrasta la propaganda del terrorismo islamista con ogni mezzo, compresi i social network come You Tube, dove ha aperto un apposito canale d’informazione anti-Isis. Ma i risultati finora sono al di sotto delle aspettative.
Il secondo fattore è l’ aggravamento della situazione socio-economica del Paese, con un crollo sia delle esportazioni sia del turismo, una crescente dipendenza dai prestiti del Fmi e il 40 per cento della popolazione egiziana che vive al di sotto del livello di povertà.
Ebbene, in un tale drammatico contesto, il partito salafita La Luce compie una mossa sorprendente: rompe la solidarietà islamica con i Fratelli Musulmani e decide di schierarsi (pur con alcuni distinguo) a favore del generale al-Sisi e del suo regime. Come si spiega questa frattura nel fronte politico islamista? Per comprenderla bisogna alzare lo sguardo dall’Egitto e osservare l’intera scacchiera mediorientale, dove è in corso una partita antica, attualmente in rapida evoluzione.
I contendenti sono l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita. Contrapposti da interessi geopolitici ed economici più ancora che da differenze religiose, i due Paesi si contendono da decenni la supremazia nella regione e giocano muovendo come pezzi regimi vassalli e partiti politici. I due giocatori si combattono “per procura” in Siria, in Iraq, in Yemen. Ed è ben noto che il recente attacco politico al Qatar - accusato di sostenere il terrorismo islamista, perciò colpito da sanzioni e da rottura di relazioni diplomatiche - è stato guidato dall’Arabia Saudita per indebolire il legame fra il Qatar e l’Iran. Venendo all’Egitto, il Qatar (con l’Iran) ha sempre sostenuto i Fratelli Musulmani e altre organizzazioni nemiche dell’Arabia Saudita; viceversa, il regime egiziano di al-Sisi è sostenuto dall’Arabia Saudita. Ed ecco il perché della mossa dei salafiti: il loro partito La Luce appoggiando al-Sisi pugnala i Fratelli Musulmani (correligionari ma concorrenti politici) e si schiera con la principale potenza sunnita della regione, l’Arabia Saudita. L’Egitto ovviamente è parte integrante della scacchiera dove muovono i due contendenti.
La mossa dei salafiti in Egitto non sarà priva di costi politici, ma più in generale tutto il futuro della galassia salafita è incerto, data l’eterogeneità delle correnti e le divisioni fra chi (per sommi capi) rifiuta la politica e chi vi si impegna, chi ricorre alla violenza e chi no. L’incertezza riguarda anche la posizione dei salafiti in Italia. Secondo un recentissimo dossier realizzato dall’Ucoii - Unione delle Comunità Islamiche d’Italia - e presentato al ministro dell’Interno Minniti, nel nostro Paese esistono 1.219 luoghi di preghiera islamici (solo l’uno per cento dei quali sono vere moschee, mentre gli altri sono capannoni e scantinati); circa 180 dei quali, cioè il 15 per cento, sono gestiti da salafiti. A quale corrente del salafismo appartengono i gestori di quei luoghi? Sono pacifici mistici come Samir o fanno parte di chi incendia il Medio Oriente? Volenti o nolenti, la grande partita in corso riguarda anche noi.
ha collaborato Flavio Edoardo Restelli