Sono centinaia i bambini stranieri nati sotto Daesh. I Paesi ?dei genitori non li rivogliono. La sfida dell'Occidente? Trovare la chiave per dare la possibilità a centinaia di donne e migliaia di ragazzini di essere riaccolti nella società, per scongiurare una futura radicalizzazione. Colloquio con Mia Bloom

foto di Alessio Romenzi
L’ Isis detiene ormai l’1 per cento del territorio che controllava al culmine della sua espansione solo pochi anni fa. I miliziani del Califfo resistono nella zona di Anbar, Kirkuk e Salahuddin in Iraq e a Hajin e altri piccoli villaggi siriani nella valle dell’Eufrate. Nonostante la sconfitta territoriale resta l’eredità lasciata dall’Isis, una questione aperta e delicata che riguarda l’Iraq e la Siria ma anche l’Europa e tutti i paesi di provenienza dei foreign fighters: il destino delle donne e dei bambini vissuti o nati sotto il Califfato confinati nei campi profughi in un limbo legale. Si stima che siano 700 i bambini nati sotto il Califfato tra Siria e Iraq da genitori internazionali. Questi bambini ora non sono riconosciuti dai paesi di origine, sono di fatto apolidi, e il cammino per riportarli a casa è pieno di ostacoli.

L’Isis ha usato un numero cospicuo di bambini e ragazzi, poco più che adolescenti, come soldati sul fronte di Raqqa e Mosul, tutti hanno subito una esposizione alla violenza per anni: punizioni corporali, decapitazioni, assassini. La sfida per i governi occidentali e la comunità internazionale è trovare la chiave per reintegrare e riabilitare donne e bambini esposti a tali traumi, e dare la possibilità a centinaia di donne e migliaia di bambini di essere riaccolti nella società, per scongiurare una futura radicalizzazione.

Mia Bloom insegna Comunicazione alla Georgia State University, parla otto lingue e svolge da anni ricerche etnografiche su reclutamento e terrorismo. È una dei massimi esperti mondiali di terrorismo femminile, ha scritto libri sul reclutamento delle donne, su donne kamikaze e tra poco uscirà la sua ultima ricerca: “Small Arms: Children and Terrorism”, un libro su bambini e gruppi terroristici frutto di sei anni di lavoro.

Mondo
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Professoressa Bloom, in che modo i bambini sono stati utilizzati dalle organizzazioni terroristiche? L’Isis ha dato loro un ruolo particolare?
«Il modo con cui i bambini - con una varietà di funzioni di supporto militare - sono stati usati dalle organizzazioni terroristiche si è evoluto profondamente nell’ultimo decennio, sconvolgendo le precedenti pratiche di reclutamento. L’uso dei bambini rappresenta uno sviluppo relativamente nuovo, sia tatticamente che strategicamente. Tracciando la mia ricerca sulla base di fonti Isis, mostro come il gruppo abbia gradualmente aumentato il numero di bambini sul campo di battaglia dal 2014 ad aprile 2017. Tuttavia va anche notato che durante i primi anni della guerra siriana altri gruppi hanno utilizzato più bambini al fronte, rispetto all’Isis. Ho inoltre raccolto dati e statistiche sull’uso dei bambini da parte dell’Isis in operazioni di martirio. Esiste una correlazione tra gli eventi in battaglia e le morti dei bambini. I dati mostrano un effetto di sostituzione: tanti più uomini morivano in battaglia, tanti più bambini sono stati mandati a sostituirli, come kamikaze».

C’era una distinzione dei bambini in battaglia?
«Distinzioni importanti: la differenza principale era tra i bambini considerati usa e getta e quelli considerati indispensabili. L’Isis tendeva a fare più affidamento sui bambini locali per le operazioni di martirio, di contro per la costruzione della macchina della propaganda sono stati usati in modo sproporzionato bambini figli di combattenti stranieri. L’Isis ha anche incaricato i bambini di sorvegliare e punire i prigionieri, invertendo così l’ordine sociale accettato, i bambini hanno preso decisioni di vita e di morte sugli adulti».

Parliamo spesso di radicalizzazione pensando all’esposizione dei bambini alla violenza e all’obbligo di unirsi ai campi di addestramento, il termine associato ai bambini è pertinente o inappropriato?
«I bambini sono bersagliati da messaggi costruiti appositamente per loro. Sono sempre più presi di mira su Internet, nelle chat room, sulle applicazioni criptate e attraverso i videogiochi. Vale la pena ricordare che Anwar al Awlaki, reclutatore americano yemenita di Al Qaeda ucciso da un drone americano nel 2011, espose lucidamente quanto fosse utile Internet per un grande sviluppo del jihad globale. Awlaki esortava i suoi seguaci a creare siti web individuali per concentrarsi sul reclutamento. E questo processo di auto-radicalizzazione online è particolarmente delicato se associato ai bambini. I nuovi media indirizzati specificamente ai giovani sono stati usati per affinare il terrore e promuovere il jihad. Un esempio: Hamas Television utilizza una versione di Mickey Mouse (Farfour) che viola il copyright per diffondere l’odio nei confronti dei suoi giovani spettatori tra i 5 e i 10 anni. I gruppi militanti usano Twitter e Facebook per diffondere messaggi radicali e reclutare adolescenti e giovani adulti. Detto questo, ritengo che sia più proprio parlare di una forma di lavaggio del cervello che di radicalizzazione vera e propria, pensando ai minori. I bambini sono annidati all’interno di strati di strutture sociali e possono essere influenzati dalla famiglia, dai pari, dalla scuola, dai media e persino dalle politiche statali. Tuttavia è improbabile che i bambini capiscano cos’è la radicalizzazione e quindi non credo che siano genuinamente radicalizzati. Di contro, credo che emulino ciò che sentono dire dagli adulti».

Ci sono esempi di programmi di riabilitazione nel mondo? Come funzionano?
«Ci sono alcuni programmi in Pakistan che hanno avuto un successo eccellente nella riabilitazione di bambini e giovani. Il più virtuoso è Sabaoon, gestito dalla dottoressa Feria Peracha, l’altro è gestito da Mussarat Paiman Alumni Trust. Entrambi hanno avuto ottimi risultati. Il centro di riabilitazione Sabaoon ha lo scopo di deradicalizzare i giovani usati dai talebani nei combattimenti contro le forze governative pakistane. La maggior parte dei bambini e ragazzi al Sabaoon appartiene a famiglie povere e disagiate, e vengono aiutati e supportati con ogni mezzo che tenda a un miglioramento materiale e psicologico della propria vita».

Due settimane fa una donna si è fatta saltare in aria in Avenue Bourguiba, in pieno centro a Tunisi, e la Tunisia un paese da cui sono partiti migliaia di foreign fighters per unirsi al jihad. La presenza di donne kamikaze non è nuova nelle organizzazioni terroristiche, lei ha dedicato due libri a questo, secondo lei sta cambiando qualcosa, e se sì, come?
«Le donne stanno giocando un ruolo sempre più significativo nel terrorismo. Gli uomini sono maggiormente presi di mira dal personale di sicurezza, e le donne rappresentano per le organizzazioni terroristiche uno scenario “vincente”. Le forze di sicurezza, infatti, evitano di perquisire in modo invasivo le donne per timore di oltraggiare la popolazione conservatrice, basata su norme sociali di modestia femminile e codici di onore, le donne dunque stanno diventavano un’arma ideale. Garantiscono l’elemento di sorpresa, perché le persone continuano ad aspettarsi che le donne non siano coinvolte nella violenza, ma la subiscano soltanto. Quando gli attentati hanno come obiettivo i civili, le donne kamikaze possono causare più danni. Un centro commerciale, un ristorante, un mercato. Le donne hanno meno probabilità di essere fermate e controllate. Si possono spingere più all’interno e avere effetti drammatici. Inoltre gli attacchi che hanno come protagoniste le donne generano maggiore attenzione mediatica. Sebbene il coinvolgimento delle donne in attività terroristiche ed estremiste non sia uno sviluppo recente, la loro presenza come soggetti attivi in prima linea, sia come kamikaze sia come reclutatrici sta effettivamente aumentando in tutto il mondo».

Pensa che i social media continueranno a essere uno strumento fondamentale per il reclutamento delle donne?
«
Sì, decisamente. Soprattutto perché le donne nei forum e in rete possono camuffare il loro genere, accedendo così agli stessi materiali degli uomini. Quando il reclutamento avveniva solo di per sona non sarebbe stato possibile».