Il paese ellenico vede un miglioramento di tutti gli indici e anche le agenzie di rating cominciano a premiare le riforme fatte. Ma il leader di Syriza, nonostante i risultati, sarà probabilmente punito alle urne

Come stai, Grecia? Leggermente meglio, grazie. L’ultimo indizio sul fatto che la cura è riuscita e il paziente se è ancora grave almeno non è morto (contrariamente a molte previsioni) lo fornisce l’agenzia Fitch che il 19 febbraio scorso ha alzato il rating del paese da B- a B con outlook positivo. Un piccolo passo che ne segue però alcuni altri.

La disoccupazione è scesa dal 27,9 al 21,7 per cento, il Pil cresce oltre il 2 per cento, il debito pubblico rimane altissimo attorno a quota 180 per cento ma è in leggera flessione. Torna la fiducia sui mercati dove i bond rendono meno, ad esempio, di quelli americani. I ministri delle Finanze dei Paesi euro hanno chiuso un accordo per un nuovo prestito da 6,7 miliardi di euro (il totale fa 326 miliardi, il più grande salvataggio finanziario della storia) dopo aver concluso, a fine gennaio, la terza verifica del programma di aiuti. Tanto che il commissario europeo per gli affari economici e monetari Pierre Moscovici ha parlato del possibile ingresso della Grecia in una “nuova era” di rilancio dell’economia e meno sacrifici. A patto che completi le riforme: sinora ne ha promosse 95 sulle 110 richieste.

Tutto bene ad Atene dopo sette anni di vacche magre? Dipende dai termini di paragone. Nel 2010, all’inizio della grande crisi, la disoccupazione era al 12,7 per cento, il Pil pro capite si attestava a 20.300 euro contro i 17 mila attuali, le persone nella fascia di povertà assoluta erano l’11,6 per cento della popolazione contro il 22,4 di oggi. Nello stesso periodo si stima che mezzo milione di giovani abbia lasciato l’Ellade per cercare fortuna altrove.

La memoria del tempo in cui si stava meglio (ma il rapporto deficit-Pil aveva toccato l’ insostenibile tetto del 15 per cento) è il peggior nemico dell’artefice del piccolo miracolo, il premier Alexis Tsipras di Syriza, sinistra radicale, costretto dalla Troika ad adottare la politica del rigore per scongiurare il default, a bere medicine amare come il taglio dei salari pubblici tra il 10 e il 40 per cento, la riduzione della spesa, la riforma delle pensioni e l’aumento dell’Iva.

Tutte misure impopolari che pagherà probabilmente nelle urne, elezioni previste a fine anno o nel 2019, se i sondaggi gli attribuiscono il 15 per cento dei consensi (meno 14 punti rispetto alle elezioni del 2015), secondo partito e nettamente staccato dal centrodestra di Nea Demokratia (36,9), mentre i neofascisti di Alba Dorata crescono all’8,3 cavalcando le paure della gente e gli effetti dell’onda migratoria. Il numero dei profughi in arrivo, in diminuzione dopo la chiusura della rotta balcanica, ha ripreso leggermente a salire dopo l’apertura di un nuovo percorso che risale sempre l’ex Jugoslavia ma passando dalla Bosnia anziché dalla Serbia.

Considerato dai più estremisti come un traditore per essersi piegato ai diktat della Troika, tanto che Syriza ha subito due scissioni, Alexis Tsipras ha deciso di abiurare le profonde convinzioni con cui era entrato sulla scena pubblica per far sopravvivere la Grecia. Al prezzo molto probabile di morire politicamente nella prossima tornata elettorale. Lo ha messo nel conto se invece di cavalcare il populismo dai dividendi immediati ha guardato a una prospettiva più lunga. Recentemente ha dichiarato: «Accadrà quello che nessuno pensava sarebbe successo. Faremo uscire il Paese dalla lunga crisi e su questo saremo giudicati». Si è scelto il tribunale della Storia invece di quello della cronaca.