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Sharon, quando era ministro della Difesa, arrivò a pensare di far saltare in aria l’intero stadio di Beirut pur di farlo fuori. Nell’intelligence israeliana era maturata l’idea che l’eliminazione di Arafat avrebbe risolto l’intera questione palestinese. Eppure quando nel 1959 aveva fondato Al Fatah, che poi sarebbe confluita nell’Olp (l’Organizzazione per liberazione della Palestina) Arafat veniva considerato dal Mossad soltanto un facinoroso studente di ingegneria del Cairo.
Ma già nel 1968 gli israeliani, dopo i primi attentati, addestrarono un prigioniero palestinese per trasformarlo in un killer programmato per ucciderlo, come accade al protagonista del film “The Manchurian Candidate”. Quello tra Sharon e Arafat fu un duello a distanza che fa parte della storia segreta del Medio Oriente. Rivelata oggi dal giornalista israeliano Ronen Bergman nel suo libro “Rise and Kill First”, l’ossessione di Sharon per uccidere Arafat era tale che da ministro della Difesa cominciò a mettere nel mirino dei caccia israeliani anche gli aerei civili che trasportavano Arafat e il suo seguito. E quando nel giugno il 1982 fu invaso il Libano sotto il comando di Sharon, l’ordine era uccidere Arafat e spingere i palestinesi in Giordania per formare un loro stato al posto della dinastia hashemita.
Eppure i segreti dei servizi israeliani - che affiorano quando quasi tutti i protagonisti sono scomparsi - non sono gli unici che accompagnano Arafat e la Palestina. Anzi alcuni, come quelli finanziari, sembrano custoditi meglio di quelli del Mossad. Indagare nelle finanze dell’Olp e di Arafat non è mai stato un compito facile. Poco prima della sua morte, Forbes valutava la fortuna di Arafat 300 milioni di dollari, 1,2 miliardi secondo i servizi israeliani, sei miliardi secondo la Cia, una cifra che appare francamente esagerata.
Ma una cosa è certa: negli anni dell’esilio a Tunisi era Abu Ala, allora fedelissimo di Arafat, a gestire i petrodollari sauditi, 85 milioni di dollari l’anno secondo i dati ufficiali, un altro centinaio in “nero”. I sauditi pagavano perché appoggiavano la causa palestinese e soprattutto per tenere lontano il terrorismo da casa loro: lo hanno sempre fatto anche con Al Qaeda e i jihadisti di tutte le risme. Era Abu Ala (Ahmed Qurei) che gestiva la finanziaria dell’Olp: lui comprava le linee aeree nel Centrafrica, le bananiere in Somalia, i terreni e gli immobili in Europa. Ma la firma finale su ogni operazione era sempre quella di Arafat.
Sul tesoro di Arafat si è sempre molto fantasticato e ancora adesso resta avvolto nel mistero come lo stesso luogo di nascita che lui sosteneva essere Gerusalemme mentre la maggior parte delle fonti lo fa nascere al Cairo nell’agosto del 1929. E anche la sua morte non è per niente chiara: forse avvelenato dal polonio trovato in misura assai sospetta nel cadavere riesumato nel 2012.
Il suo braccio finanziario, Mohammed Rashid, ha comunque sempre affermato che «Arafat non aveva proprietà personali in nessuna parte del mondo». In parte aveva ragione. Arafat non era ricco nel senso che quel denaro non lo ha mai goduto come un qualunque sceicco arabo in vacanza a Londra o a Parigi ma lo ha usato come strumento del suo potere. Il discorso potrebbe essere diverso per la vedova Suha Tawil Arafat, che vive con la figlia a Malta: riceve una pensione da 12 mila dollari al mese dall’Autorità palestinese ma nel 2011 venne anche inseguita da un mandato d’arresto della Tunisia per malversazioni finanziarie. Una vicenda svanita nel nulla perché ai tunisini interessavano i rapporti tra Suha e la moglie dell’ex dittatore Ben Alì. Di certo ci sono le dozzine di miliardi versati all’Autorità Palestinese: dagli arabi, dagli americani (che ora minacciano di congelare gli aiuti) e soprattutto dall’Unione europea. Ma anche dagli Stati dell’ex Patto di Varsavia, da partiti e movimenti politici come quelli italiani che con Arafat erano in affari, per un motivo o per un altro.
Tutti lo conoscevano e lui, quando lo andavano a trovare, dolcemente li prendeva per mano, politici, giornalisti, banchieri. E se affiorano novità su questi rapporti, l’eredità di Arafat può diventare di nuovo pesante. Lo Stato palestinese oggi sembra un’utopia ma l’ombra di Mister Palestina si aggira ancora tra noi.