Ricette per reagire all'autodistruzione del Continente. Perché quando ?un organismo s’inquina oltre una certa soglia, non si sa mai a cosa può ?andare incontro
“Farewell to Europe” è il titolo premonitore del bellissimo film uscito recentemente sugli ultimi anni di vita dello scrittore ebreo-austriaco Stefan Zweig. Non trovo migliore espressione per commentare gli esiti del vertice di Bruxelles. Dove non soltanto non si è concluso nulla di effettivo, come del resto ci si aspettava. Ma non si è trovato l’accordo neanche sull’interpretazione di quanto è successo – che ognuno racconta a suo modo, guardando ai propri problemi di casa. Così, tra ipocrisie e tentativi ?di sgambettarsi a vicenda dei premier europei, il simbolo più appropriato di quanto è accaduto appare una Torre di Babele in cui la confusione delle lingue riporta l’Europa a una sorta di grado zero.
Assai istruttivi sulla vicenda in corso, ?e assolutamente attuali, appaiono, a rileggerli oggi, i due discorsi di Zweig ripubblicati in Francia con il titolo, ancora ostinatamente ottimista, “Appello agli Europei”. Colpiscono le date, ma anche le circostanze della loro elaborazione, tra il 1932 e il 1934, a cavallo dell’avvento del nazismo in Germania. Che portò l’autore – uno degli intellettuali più influenti dell’epoca – prima a prendere la cittadinanza inglese e poi a riparare negli Stati Uniti e in Brasile, dove si suicidò, insieme alla giovane moglie, nel 1942.
Il primo discorso, intitolato “La disintossicazione morale dell’Europa”, avrebbe dovuto tenerlo a Roma, in un congresso organizzato dall’Accademia d’Italia fascista. Il motivo per cui fu tra i pochi intellettuali a disertare l’incontro lo scrisse a Romain Rolland: se fosse andato a Roma, sarebbe stato costretto a stringere delle mani che non voleva neanche toccare, come quelle di Hermann Goering e di Alfred Rosenberg, anch’essi invitati all’evento a propagandare le virtù del nazional-socialismo.
Del resto la “disintossicazione” cui il discorso allude è quella dal nazionalismo che ha invaso, come una “lebbra” – è davvero il caso di dirlo – l’intera Europa. Ancora l’anno seguente, nel fatidico 1933, un altro intellettuale di diverso orientamento come Julien Benda si era rivolto “à la nation européenne”, con lo sguardo al “Discorso alla nazione tedesca” scritto più di un secolo prima dal filosofo tedesco Fichte. Per Benda solo se avesse assunto la forma patriottica della nazione, l’Europa avrebbe potuto giocare un ruolo di grande potenza nel mondo degli Stati in competizione fra loro per la conquista dello spazio coloniale.
Di tutt’altro avviso Stefan Zweig: per lui ?è stato proprio l’egoismo nazionalista ad aver costituito il brodo di cultura della peste bruna che sta strozzando un’Europa incapace di resistergli. Le sue parole sembrano scritte ieri: «In tutte le nazioni o quasi si manifestano gli stessi fenomeni ?di forte e brusca irritabilità, malgrado una grande fiacchezza morale, una mancanza di ottimismo, una sfiducia crescente, insieme al nervosismo generato da un senso generale di insicurezza».
L’Europa - continua - è battuta da un vento caldo ?e umido che irrita i nervi, senza incitare all’azione reale. Il nazionalismo, causa fondamentale della prima guerra mondiale, è come una droga micidiale che porterà presto alla seconda. E dunque il problema che si pone alla cultura rimasta democratica è «come procedere ?alla disintossicazione morale di quest’organismo, come contrastare ?la depressione psichica che pesa sull’Occidente quanto la depressione economica?». Crisi economica e crisi della democrazia, come in questi anni, si avvitavano anche allora in un cortocircuito perverso che avrebbe trascinato l’Europa alla rovina.
Certo, l’europeismo di Zweig è per certi versi ancora legato al mito asburgico del “mondo di ieri”. Ancora immaginava possibile una pace che l’ascesa di Hitler al potere rendeva di fatto impraticabile. Ma ciò non toglie che egli cogliesse il punto decisivo, non privo di risonanza rispetto a quanto accade oggi: fin quando i Paesi europei si muoveranno soltanto in vista dei propri interessi, l’Europa resterà muta e impotente rispetto alla possibilità della propria autodistruzione.
Ma come reagire di fronte a questa tentazione, alla reciproca incomunicabilità che, pur in una situazione assai diversa, sembra disperdere ancora una volta le energie di un continente unito e solidale? Zweig, nel secondo discorso del 1934, scritto dopo il suo trasferimento a Londra, formula alcune proposte che non hanno perso di significato.
La prima delle quali è quella di scegliere periodicamente una capitale simbolica per l’intera Europa in cui attivare una serie di iniziative di grande impatto pubblico. Non Ginevra, sede della Società delle Nazioni, di fatto priva di ogni effettiva forza politica, non diversamente da quanto accade oggi a Bruxelles, ma città medio-grandi come Lione, Praga ?o Amburgo, nelle quali il riferimento all’Europa possa divenire, per un certo periodo, il centro della vita sociale e culturale. Zweig è consapevole che la sfida contro il nazionalismo non è facile, perché questo ha strumenti che mancano all’Unione europea – la lingua, la bandiera, le insegne militari.
Tutti elementi che, prima che alla ragione, parlano al sentimento popolare. Rispetto ai quali ?le risorse della cultura, i discorsi, libri, congressi, che lo spirito europeo può mettere in campo restano poca cosa, cosa per pochi. Senza un’analoga forza di suggestione, che parli al “cuore” e al “sangue” degli europei, la battaglia contro ?i nazionalismi sarà persa inevitabilmente: «perché mai nella storia il cambiamento è venuto dalla sola sfera intellettuale o dalla sola riflessione». Se non saremo capaci - prosegue Zweig - di conferire visibilità e passione all’idea di Europa, spostandoci dal piano dell’ideologia a quello dell’organizzazione militante, i nazionalismi avranno partita vinta.
La Società delle Nazioni, come oggi i palazzi di Bruxelles e Strasburgo, appare lontana e chiusa nell’astrattezza dei suoi regolamenti, incapace di inventare qualcosa come «una politica europea ostensibile e persuasiva. Tutte le nostre iniziative», conclude Zweig, «devono assumere questa direzione, orientarsi verso la pratica, restare sul terreno del sensibile e del visibile».
Come questo progetto sia, a suo tempo, fallito lo sappiamo; come abbia prevalso il veleno nazionalista e anche razzista, è ben noto. ?I sessanta milioni di morti della seconda guerra mondiale stanno lì a testimoniarlo. Quando, nel 1942, dall’altra pare dell’Oceano, Zweig mise fine alla propria vita, l’Europa si era ormai trasformata in un grande campo di macerie fumanti. Certo, oggi non rischiamo nulla del genere. E i morti che affiorano dalle acque del Mediterraneo non sono europei. ?Ma dobbiamo stare attenti. Quando ?un organismo s’intossica oltre una certa soglia, non si sa mai a cosa può ?andare incontro.