Il 25 luglio si vota. Il favorito è un ricco ex campione  di cricket che finanzia le  scuole coraniche estremiste. Il paese è stato inserito nella “grey list” di chi aiuta economicamente il terrorismo. E per il Parlamento corrono partiti vicini alla jihad

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Il Pakistan è uno Stato «in cui la cui giurisdizione in materia di antiriciclaggio e lotta contro i finanziamenti al terrorismo presenta serie carenze strutturali». Per questo il 29 giugno, la Fatf (l’organismo intergovernativo ufficiale di lotta al riciclaggio dei capitali illeciti e di prevenzione del finanziamento al terrorismo) ha sancito l’inclusione del Paese nella sua “grey list”. Una bocciatura senza appello, nonostante tutti gli sforzi diplomatici messi in atto da Islamabad perché la decisione non diventasse definitiva.

In febbraio, la Fatf in sessione plenaria aveva votato per l’inclusione del Pakistan nella “grey list”. Questa era stata fortemente voluta dagli Stati Uniti, che (dopo una prima votazione in cui Cina, Arabia Saudita e Turchia avevano votato contro) aveva fatto pressioni per un secondo voto sullo stesso argomento. A quel punto, i sauditi, in piena luna di miele con Donald Trump, hanno ritirato il loro appoggio al Pakistan. Così come i cinesi, nonostante l’amicizia «profonda come l’oceano e dolce come il miele» con Islamabad. Pechino ha detto ai pakistani che non voleva perdere la faccia sostenendo una mozione destinata a fallire; più prosaicamente, all’indomani della riunione di febbraio la Cina ha ottenuto la vicepresidenza della stessa Fatf. A fianco del Pakistan è quindi rimasta soltanto la Turchia, più volte ringraziata da Islamabad, ma non è bastato.
Le conseguenze dell’inclusione del Pakistan nella “grey list” a livello finanziario potrebbero essere gravi: il Paese sarà per quindici mesi sotto stretto controllo degli organismi internazionali, ma non solo. Ne risentiranno le transazioni bancarie, gli investimenti esteri e la Borsa. I pakistani minimizzano, sostenendo che la “grey list” non avrà effetti sull’economia del Paese (già abbastanza disastrata di suo, in effetti) ma sarà soltanto causa di «imbarazzo» alla nazione (parola usata dell’ex ministro delle Finanze, Miftah Ismail).
Mondo
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D’altra parte, è vero che le conseguenze più rilevanti della decisione della Fatf sono politiche. Il voltafaccia della Cina la dice lunga sul peggioramento delle relazioni tra Pechino e Islamabad. Probabilmente il Pakistan ha cercato di giocare con la Cina la stessa partita giocata per anni con gli Stati Uniti, ma con risultati molto diversi: i cinesi di doppio gioco ne sanno almeno quanto Islamabad. Così come i sauditi, d’altra parte.
La narrativa abituale mostra ormai la corda: nessuno è più disposto ad ascoltare la lamentele del Pakistan che ricorda al resto del mondo, in continuazione, l’altissimo prezzo in vite e in denaro pagato dalla “terra dei puri” per lottare contro il terrorismo. Il resto del pianeta, compresi gli usuali compagni di merende, comincia a ricordare che Islamabad è stata ed è artefice e creatrice proprio del terrorismo contro cui dice di combattere. E tutti hanno capito che il Pakistan non fa e non intende fare alcuno sforzo serio per adeguarsi ai principi della Fatf o di alcun’altra organizzazione internazionale.

In nome del mullah

Intanto in febbraio, proprio mentre si teneva la riunione della Fatf, il potente leader politico Imran Khan e il suo partito (il Movimento per la Giustizia pakistano) votavano il raddoppio dei finanziamenti destinati alla famigerata madrasa Haqqania, una scuola coranica legata alla corrente Deobandi dell’Islam sunnita, dove hanno studiato e si sono formati tra gli altri il mullah Omar (capo dei talebani morto nel 2013) e Jalaluddin Haqqani (leader di una rete terroristica che porta il suo nome).

Il problema è che Imran Khan, il finanziatore della madrasa in questione, soprannominato nel Paese “Taliban Khan,” potrebbe risultare il vincitore delle prossime elezioni, fissate per il 25 luglio.
Sessantasei anni, ex campione di cricket (è stato anche capitano della Nazionale, con cui ha vinto la coppa del mondo nel 1992), Khan è entrato in politica dopo aver lasciato l’attività sportiva e ha visto negli anni crescere la sua popolarità, soprattutto tra i giovani.
Ricco e con fama di filantropo, dopo aver divorziato dalla seconda moglie si è risposato con una veggente-guru che gli ha predetto la vittoria alle elezioni soltanto dopo il matrimonio con lei.
Difficile definirne la linea politica (accusata infatti di essere molto vaga) ma al centro delle sue promesse ci sono la lotta alla corruzione, la creazione di nuovi posti di lavoro per i giovani, un piano edilizio per i più poveri e il miglioramento della rete elettrica (i cui frequenti black-out sono causa di disagio per vaste fasce di popolazione, specie quelle meno abbienti).

Stragisti nell’urna

Ma c’è di peggio in giro, anche rispetto all’ambiguo ex campione di cricket. Alle elezioni del 25 luglio si presenterà infatti pure Muhammad Ahmad Ludhianvi, appena cancellato dalla lista dei terroristi nazionali.
Ludhianvi, nemmeno cinquantenne ma già munito di una lunga barba bianca, è a capo di un partito che si chiama Ahl-i-Sunnat-Wal Jamaat (Aswj), braccio politico di un’altra organizzazione, la Lashkar-i-Janghvi (LiJ). Entrambe sono, o meglio erano, nella lista delle organizzazioni terroristiche nazionali e internazionali: sono entrambe figlie di un altro famigerato gruppo, la Sipah-i-Sahaba, responsabile di avere ammazzato negli ultimi dieci anni almeno 2.300 sciiti.

Nessuno, né il governo né la Corte Suprema né la Commissione elettorale, si prende la responsabilità dell’accaduto. Che è di quelle pesanti: non soltanto perché l’ennesimo gruppo di terroristi è stato autorizzato a girare a piede libero, ma anche perché Ludhianvi e i suoi, accesi fautori dell’omicidio di massa nei confronti di tutti coloro che non si adeguano alla loro visione dell’Islam, sono stati tolti dalle liste dei terroristi nazionali proprio perché potessero candidarsi alle elezioni.
E, tra le varie liste, si trovano anche in ottima compagnia. A candidarsi per le prossime elezioni, già definite «le più truccate della storia», non sono infatti soltanto Khan e Ludhianvi. Ci sono pure quei bravi ragazzi della Milli Muslim League, che non ha ottenuto un simbolo elettorale ma che si candida, con il simbolo del faccione di Hafiz Muhammad Saeed, in una coalizione di partiti islamici.
Questo Hafiz Saeed, 68 anni, è accusato tra le altre cose del massacro di Mumbai del 2008, che fece 295 morti. Su di lui pende una taglia della Cia. Le sue organizzazioni (Lashkar-i-Toiba e Jamaat-u-Dawa) sono entrambe nella lista dei gruppi terroristici internazionali. Hafiz Saeed non si è candidato personalmente, ma suo figlio e i suoi parenti sì.
A completare il quadro, si presenta alle elezioni anche il partito Tehrik-i-Labbaik Pakistan guidato da Khadim Hussain Rizvi, che vagheggia il tirono del Califfato. In maggio, un membro di questo partito ha sparato all’allora ministro dell’Interno Iqbal accusandolo di blasfemia. Lo scorso novembre Rizvi e i suoi militanti hanno bloccato per giorni Islamabad e messo sotto assedio l’intero Paese per protestare contro l’inclusione di una clausola definita blasfema nella nuova legge elettorale. Dopo giorni e giorni, il governo ha ceduto su tutta la linea e, immediatamente dopo, si sono visti membri dell’esercito e dei servizi segreti che distribuivano mazzette di banconote ai dimostranti.

Democrazia per finta

L’esercito e i servizi segreti difatti, come rivelato in un documento riservato filtrato anni fa, hanno trovato un modo migliore e più pulito di un colpo di Stato per governare il paese: i soldi. La democrazia, distorta dalla corruzione, si poò così trasformare in uno strumento potentissimo. Basta organizzarsi per bene. E se le scorse elezioni sono state contese a colpi di attentati e attacchi suicidi, queste sembrano essere all’insegna della mazzetta, anche verso giudici e tribunali.

Lo scorso anno il premier Nawaz Sharif è stato inibito a vita dal concorrere ad ogni carica pubblica, per via di un caso di corruzione passato in giudicato: Sharif dovrà andare in galera per i prossimi dieci anni, sua figlia (ed erede politica) Maryam per sette. Danyal Aziz, ministro delle Privatizzazioni nel governo Sharif, ha subito la stessa sorte, così come Shahid Khaqan Abbasi, che aveva preso il posto di Sharif come primo ministro.
Inoltre da mesi si assiste a una continua emorragia di candidati dal partito di Nawaz Sharif (ex premier) dal Partito popolare dei Bhutto. Pagati dall’esercito e dall’Isi (i servizi segreti) perché si candidino come indipendenti o - meglio - vadano a ingrossare le fila dei suddetti partiti islamici del terrore e di quello del rampante ex campione Imran Khan.

Il governo, o meglio l’esercito e l’Isi che manovrano tutto nemmeno tanto nell’ombra, giustificano l’inclusione nelle liste elettorali di terroristi da loro finanziati come un tentativo di «riportare la pace» nel Paese inserendo i terroristi in questione nel processo politico. Qualcosa di paragonabile, o almeno questo è ciò che dicono, al tentativo di riportare in Parlamento i talebani in Afghanistan.

Gli estremisti tuttavia non sembrano così ansiosi di giungere a una pacificazione: la campagna elettorale è costellata di minacce e attentati, l’ultimo dei quali (a Peshawar, il 10 luglio scorso) ha fatto strage in un comizio del Partito nazionale Awami (Anp), una formazione laica, democratica e moderatamente di sinistra già presa di mira in passato dagli islamisti.

Aula insanguinata

Certo: nonostante tutto, è difficile che il prossimo governo vada un terrorista dichiarato. E il favorito Imran Khan agli occhi dell’Occidente è ancora in buona parte rivestito di quella “allure” internazionale che gli proviene dalla frequentazione di buoni salotti economici (ha anche parlato all’ultimo Forum di Davos) e dall’ex moglie Jemima Goldsmith (una brillante documentarista inglese di buona famiglia, imparentata addirittura con Camilla, la moglie del principe Carlo). Di certo, però, a sedere tra i banchi del Parlamento pakistano sarà una maggioranza al soldo dell’esercito e in buona parte con le mani macchiate del sangue.