In Libia comandano bande e milizie: il governo Sarraj è solo una facciata

La malavita controlla i porti, il petrolio e i commerci illegali. Mentre Usa, Francia, Italia e Regno Unito ora dicono di condannare le stesse forze a cui per anni si sono affidate

al-Sarraj
«La vita quotidiana dei libici è una questione di sopravvivenza, pensi solo a come trascorrere la giornata senza essere rapito da milizie o bande criminali. Devi essere attento a dove ti muovi, a che ora cammini lungo la via che riporta a casa te e i tuoi figli. Al buio che può nascondere un ragazzino scellerato e armato che ti porta via». Abdullah parla con voce tesa, come se il timore di essere ascoltato non lo abbandonasse mai. Ha aspettato ore prima di rispondere alle domande, non perché non volesse, ma perché - come ogni giorno - a Tripoli non c’è stata elettricità per almeno otto ore. La novità degli ultimi tempi, da quando cioè sono iniziati gli scontri armati tra milizie che hanno provocato più di 50 vittime, 140 feriti e migliaia di sfollati, è che i social media sono bloccati e in città tutti temono che la chiusura totale dell’accesso a internet sia solo questione di ore.

Intanto si fanno i conti con la mancanza d’acqua, di contanti, come succede ormai da anni, e con la paura che i combattimenti avanzino in altre zone della città. «Le milizie influenzano ogni aspetto della vita libica, gestiscono il governo, controllano le banche. Hanno l’ultima parola sull’accesso ai visti, ai documenti, sul prezzo del denaro al mercato nero, sulla sicurezza dei pozzi di petrolio, dei ministeri, delle infrastrutture. E naturalmente dei traffici illegali. Questa è la Libia di oggi», continua.

Quello che descrive Abdullah è un potere capillare che ha mille facce, più simile alla nostra mafia contemporanea, la mafia istituzionalizzata, che a una guerra tribale. Le milizie oggi non sono solo l’evoluzione delle brigate che hanno combattuto per deporre il regime del rais Muammar Gheddafi nel 2011, sono piuttosto espressione del potere che determina ogni aspetto della vita libica, sono state cooptate nelle istituzioni, legittimate dall’appoggio dei governi europei che non potevano garantire la sicurezza del governo Sarraj se non grazie alle milizie principali di Tripoli, sono di fatto accettate dalla comunità internazionale e esercitano un condizionamento costante dell’attività di governo e delle singole municipalità.

Sono espressione di un potere ramificato e corruttivo che tiene insieme i palazzi del potere e i traffici illeciti, la gestione delle ricchezze del paese, gas e petrolio e tiene sotto scacco i governi che hanno interessi sul suolo libico - Italia e Francia in primis - con la costante minaccia di un’inesistente invasione di migranti.

Si accettano le milizie, in cambio di un efficace controllo delle coste tripolitane. Perché le medesime milizie che controllano la sicurezza del premier Sarraj e del suo governo, dei ministeri e dei centri di detenzione legali dipendenti dal ministero dell’Interno, sono coinvolte direttamente nel traffico di uomini, come più volte riportato dai report delle Nazioni Unite. E averle come interlocutori è stato per i governi europei il prezzo da pagare per gestire il flusso migratorio e contemporaneamente la garanzia di impunità e mantenimento di un fragile e pericoloso status quo.

«Le milizie sono in grado di mettere le mani ovunque», continua Abdullah, «per questo per la gente restano le briciole, così come resta poco e niente per gli investimenti di cui il paese avrebbe bisogno. Non ci sono strategie di sviluppo, c’è solo un animale istinto di sopravvivenza. Oggi a Tripoli ognuno di noi pensa solo a cosa sia meglio fare per rimanere vivo. Se c’è una soluzione? Certo che c’è ma nessuno vuole metterla in pratica: queste bande dovrebbero consegnare le armi, lasciarci vivere. Ma a chi possiamo appellarci se le bande armate sono state legittimate dall’Occidente attraverso il finto governo di Sarraj, un governo che non rappresenta nessuno, se non gli interessi economici europei?».

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27/6/2018
Dallo scorso 27 agosto i distretti meridionali della capitale libica sono teatro di combattimenti, dopo che la settima brigata con sede a Tarhouna, 65 chilometri a sud di Tripoli, ha lanciato un’offensiva sulla città. I tre tentativi di cessate il fuoco sono stati vani, costringendo il premier al-Sarraj a dichiarare lo stato di emergenza per «proteggere i civili, i possedimenti pubblici e privati ??e le istituzioni vitali», si legge nel comunicato. È stato chiuso anche l’unico aeroporto fino a ieri funzionante nella città, quello di Mitiga.

La gestione delle milizie è un tema aperto in Libia da sette anni, cioè dal 2011, anno del rovesciamento del regime. Alcuni dei gruppi armati che si stanno scontrando in queste settimane sono stati protagonisti della rivoluzione, poi nel periodo post rivoluzionario, i gruppi armati sono stati finanziati dai ministeri della Difesa e dell’Interno, come l’esercito, sotto la gestione del Supreme Security Committee e del Libya Shield Forces.
I soldi statali pagavano i salari sulla base di conti gonfiati e false dichiarazioni che hanno arricchito i capi brigata e i loro alleati politici e parte di quei soldi è stata investita in armi pesanti. Dopo il colpo di Stato del 2014 e la divisione del paese, questa opzione di finanziamento è venuta meno, i salari sono stati ridimensionati e senza fondi statali gonfiati i miliziani hanno cercato (e trovato) altri modi per finanziarsi: racket, tangenti, rapimenti, ruberie.

Tutti i governi - o i tentativi di governo - che si sono insediati in Libia dopo quella stagione hanno fallito l’obiettivo di integrare le milizie nelle strutture statali, provocando il radicamento di alcune di esse e il conseguente controllo di asset strategici del paese: porti, aeroporti, terminal petroliferi, depositi di armi, caserme, ponti e strade. E naturalmente i traffici illeciti: il contrabbando di armi e carburante e il traffico di uomini.

A contendersi le alleanze strategiche con le milizie i due governi: Gna, cioè il governo di Sarraj di base a Tripoli e sostenuto dalla comunità internazionale (di cui il governo italiano è interlocutore privilegiato) e la Camera dei rappresentanti in Cirenaica, a cui fa capo l’uomo forte di Tobruk, il generale ex gheddafiano Khalifa Haftar, fortemente sostenuto dalla Francia di Emmanuel Macron.

Un paese spezzato in due, est e ovest, che non sono solo separate geograficamente, ma sempre più economicamente. Ognuna con la sua banca centrale, la compagnia petrolifera e soprattutto ognuna con un’area di influenza europea.

Sul terreno dell’instabilità libica si sta giocando il redde rationem delle milizie ma anche quello dei governi italiano e francese che hanno idee e strategie diverse sulle elezioni annunciate per il prossimo dicembre e le riforme necessarie - una base costituzionale e legale comune in vista del voto - per stabilizzare il paese. Lo scorso maggio Sarraj e Haftar ne hanno parlato a Parigi, sotto l’ala protettrice di Macron.

Un giovane cittadino libico, commentando gli scontri degli ultimi giorni, spiega: «È come avere una donna divorziata con figli che sposa un uomo anche lui divorziato con figli. Stanno insieme, mettono al mondo altri bambini e poi un giorno lei dice a lui: i miei figli e i tuoi figli stanno combattendo contro i nostri bambini». L’ironia di questo anonimo nasconde la complessità dello scacchiere libico.

La settima brigata, la Tarhouna, che ha lanciato l’offensiva sulla capitale, si presenta come la sola «in grado di ripulire Tripoli dalle milizie corrotte che usano la propria influenza per ottenere crediti bancari da milioni di dollari e intanto la gente comune dorme fuori dalle banche per avere un po’ di risparmi». Questo slancio populista in difesa dei cittadini cela la rivendicazione della propria parte del bottino, da cui la Settima Brigata sente di essere stata esclusa dal “cartello di Tripoli” cioè le quattro potenti milizie che dettano legge nella capitale.

In un report pubblicato la scorsa primavera dal titolo significativo “Capital of militias”, la capitale delle milizie, Wolfram Lacher, dell’Istituto tedesco per affari internazionali e sicurezza, ha evidenziato come negli ultimi anni in Libia si sia assistito a un’ascesa inarrestabile dell’oligopolio di queste bande della capitale: la Brigata rivoluzionaria del giovane signore della guerra Haitam Tajouri, la brigata Nawasi, le forse di deterrenza (milizia salafita con a capo Abdulraouf Kara) e l’unità di Abusalim.

Lo studioso sottolinea che, da quando nel 2016 si è insediato il governo Sarraj, le milizie sono diventate interlocutori obbligati per garantire la continuità del Consiglio Presidenziale sostenuto dalla comunità internazionale. Non c’era modo infatti di operare per Sarraj se non con il benestare di queste quattro milizie, che in città erano già potentissime.

Nel corso degli ultimi due anni questo potere ha dunque beneficiato del sostegno de facto di tutti gli attori internazionali che appoggiano il governo Sarraj: in termini pratici questo ha garantito una legittimazione politica alle milizie, che deriva dall’essere associate al governo che ha integrato queste bande nei suoi apparati di sicurezza, assicurando loro impunità e accesso ai fondi statali.

Spiega Lacher: «Negli ultimi due anni le grandi milizie tripolitane si sono trasformate in reti criminali associate alla politica, ai grandi uomini d’affari e all’amministrazione. Si sono infiltrati nella burocrazia coordinando le loro azioni tra diverse istituzioni statali e il governo è impotente di fronte a queste influenze. Le politiche Onu e i governi occidentali hanno contribuito alla corrente situazione a Tripoli. Hanno incoraggiato la presidenza Sarraj a trasferirsi a Tripoli sotto la protezione del milizie, quindi hanno tacitamente supportato l’espansione di questi gruppi».

Gli attori esclusi da questo accordo hanno costruito alleanze per prendersi la propria fetta della ricchezza libica, la propria fetta della ricchezza che la rete criminale del cartello di milizie tripoline garantisce ai suoi affiliati. E per rivendicarla stanno infuocando la capitale.

La comunità internazionale nel frattempo ha «condannato con fermezza» i combattimenti chiedendo la cessazione immediata delle ostilità. Stati Uniti, Francia, Italia e Gran Bretagna hanno intimato che «chi manomette la sicurezza della Libia sarà ritenuto responsabile di tali azioni». Per i cittadini libici restano parole vuote.

«Non solo vuote», dice Yaseen, che un tempo lavorava come addetto alla sicurezza delle aziende internazionali in Libia, «sono anche ipocrite. Questi paesi, le stesse Nazioni Unite che dovrebbero garantire un processo di pace in Libia hanno fallito, hanno sbagliato tutto in questi anni, imponendo ai libici un governo che non rappresenta altro che i loro interessi e stringendo accordi più o meno opachi con quelle milizie che oggi fingono di condannare».

Il governo Sarraj esiste sempre più solamente sulla carta, dopo dieci giorni di battaglia Tripoli continua a contare morti e sfollati e nel mezzo, dimenticati dalla diplomazia. In più ci sono migliaia di migranti, rinchiusi in prigioni legali o illegali, che nessuno può evacuare: molti di loro sono stati catturati nel Mediterraneo e rispediti a terra sotto i colpi di artiglieria, in una Libia considerata “un porto sicuro”.

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