Il sottosuolo di Jahria è ricchissimo di materia prima indispensabile per l'industria: sono le persone a non valere nulla. Vi raccontiamo come si vive, e si muore, in questa regione illuminata dagli incendi e avvolta da nubi tossiche (Foto di Stefano Schirato per L’Espresso)

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C’erano palme una volta, qui. E campi, e risaie. La sera, la gente sedeva a chiacchierare davanti alla porta di casa, gli uomini sotto un albero al centro del villaggio. C’erano animali, e fiori, ed erbe medicinali. Ci sono ancora, da qualche parte. Ci sono ancora ai margini di questa terra desolata e grigia, dove non c’è più cielo e dove la terra è diventata nemica. Adesso, arrivare qui è come arrivare su un altro pianeta. Un pianeta fatto di scheletri carbonizzati di alberi, di mozziconi di case avvolte da una nube tossica che le stringe come un sudario, di rovine che spuntano dalla terra, inghiottite dalle voragini aperte dalle esplosioni sotterranee. Non è mai notte a Jharia, perché la notte splende del chiarore sinistro della terra che brucia e del rosso arancio delle fiamme che segnano le linee di percorrenza dei nuovi fuochi che trasformano la terra in magma. E se la notte è arancio e rossa e nera, il giorno è grigio ferro e avvolto da una coltre costante di gas e nebbia tossica. Non è mai notte, a Jharia. E non è mai davvero giorno da tanto, troppo tempo. Da quando la terra ha cominciato a bruciare, ed è stato tanto tempo fa.
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Jharia, nello stato indiano del Jharkhand, si trova nel cosiddetto corridoio del carbone, al centro del triangolo industriale che si è sviluppato in una delle zone più ricche di minerali dell’India, un triangolo che tocca il West Bengal, l’Orissa, il Bihar e lo stesso Jharkhand. È la zona in cui si trova la maggior parte della ricchezza mineraria dell’India: oro, rame, uranio, ferro e, per l’appunto, carbone. Carbone che si estrae, fin dai primi anni del secolo scorso, prevalentemente nella zona compresa tra Dhanbad e Jharia. Le estrazioni sono cominciate all’inizio del novecento, seguendo il metodo “tradizionale”: miniere sotterranee in cui i minatori si calavano per estrarre il carbone.
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Il primo fuoco è divampato nel 1916, e da allora la terra ha continuato a bruciare: si dice che i fuochi sotterranei di Jharia siano tra i più antichi del pianeta. Siccome si trattava di fuochi sotterranei difficili da estinguere, in principio non è stato preso alcun tipo di provvedimento. Le aree coinvolte sono state abbandonate, sono state aperte altre miniere poco lontano e i fuochi sono stati lasciati a se stessi nella speranza che prima o poi si estinguessero da soli. Non è stato così. E il crescente fabbisogno di energia dell’India, la spinta all’industrializzazione cominciata a metà degli anni settanta, ha reso di importanza fondamentale le miniere di Jharia che producono carbone di qualità altissima necessario ad alimentare le acciaierie che sorgevano nella zona, costruite prima dalla Tata e poi dalla Archelor-Mittal negli ultimi anni.
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Così, nel 1973, la Bharat Coaking Coal Ltd cominciava o meglio, ricominciava a estrarre carbone, questa volta su larga scala, dalle miniere di Jharia. L’impatto ambientale e sociale si è rivelato devastante. La Bccl ha infatti deciso di adottare metodi di estrazione più rapidi ed efficienti rispetto a quelli adoperati in passato: le cosiddette miniere a cielo aperto. «L’idea», racconta Ashok Agrawal, che è il presidente della Jharia Coalfield Bachao Samiti, un’organizzazione che lotta da tempo perché la situazione disperata di Jharia venga in qualche modo sanata e risolta «era di estrarre carbone velocemente e a costi contenuti...
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La Bccl non aveva calcolato però che nella stessa zona in cui sono state aperte le miniere a cielo aperto, esistevano le vecchie miniere sotterranee. Il sottosuolo era pieno di gallerie e cunicoli scavati in precedenza per permettere ai minatori di estrarre il carbone dal sottosuolo. E le gallerie sono piene, sempre, di pezzetti di carbone che prendono fuoco facilmente. Nelle gallerie si sviluppa del gas. Così, quando hanno abbattuto le pareti e le volte delle gallerie per scavare a cielo aperto, l’impatto dell’aria è stato devastante. Il carbone rimasto nei cunicoli ha preso fuoco per via dell’ossigeno e dei gas combustibili, e ha continuato a bruciare sempre più in profondità e in aree sempre più estese».
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Al momento, nel cosiddetto corridoio del carbone tra Jharia e Dhanbad ci sono 110 miniere legali e, secondo stime non ufficiali, altrettante miniere illegali. È uno dei posti più inquinati del pianeta, si dice. Le miniere di carbone coprono un’area di 450 chilometri quadrati, e la terra brucia in circa settanta zone. Brucia a una temperatura di 700 gradi, come un vulcano. Delle circa settecentomila persone che vivono nella zona delle miniere, soltanto un quinto lavora per la Bccl: gli altri, sopravvivono con mezzi di fortuna. Raccolgono i pezzi di carbone che cadono dai camion ufficiali, trasportano enormi sacchi scuri su biciclette che sembrano minuscole sotto il peso caricato. Rivendono per poche rupie il carbone al mercato nero, alla criminalità organizzata e alla mafia locale che lo rivenderà a sua volta per un profitto ben maggiore.
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La storia di Jharia è al tempo stesso unica e simile a molte altre che si trovano al centro e ai margini del triangolo industriale. Una storia che fa parte di una storia più ampia, la storia dello scontro in atto ormai da moltissimi anni tra due delle molte anime dell’India: la legittima aspirazione alla modernizzazione al progresso, e la civiltà tribale e dei villaggi sopravvissuta ai secoli e alla Storia. Secondo la legge indiana, le popolazioni tribali hanno diritto a conservare la propria terra, i propri usi e costumi, le loro tradizioni. Per legge, i rappresentanti delle tribù e dei villaggi devono essere consultati ogni volta che nelle vicinanze delle loro terre si costruisce qualcosa. Qualunque cosa, anche i fili dell’energia elettrica, anche una strada o una casa cantoniera: figuriamoci una miniera. Ma la tecnica è sempre la stessa: si espropriano i tribali della loro terra con mandato governativo, gli si attribuisce una ricompensa in denaro, si promette un posto di lavoro e un certo numero di moderne comodità. Le donne, ovviamente, che non hanno legalmente alcun diritto sulle proprietà terriere, non vengono neanche consultate. E sono quelle che più risentono della distruzione dell’ambiente causata dalle compagnie minerarie e della disgregazione del tessuto sociale; proprio perché ricoprono un ruolo tanto importante all’interno dell’economia tradizionale.
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«La trasformazione dell’economia agraria in economia mineraria degrada lo stato sociale, economico e culturale delle donne. E favorisce l’instaurarsi di mali sociali fino a quel momento sconosciuti come la violenza domestica, l’alcolismo, i debiti, gli abusi fisici e sessuali, la prostituzione e l’abbandono», sostiene Urmi Basu, un’attivista sociale che ha fondato l’Ong New Light a Calcutta e che in Jharkhand svolge parte della sua attività. Per sopravvivere, la popolazione di Jharia non ha più ormai da anni altro mezzo che le miniere: le miniere illegali, quelle in cui si lavora senza attrezzatura professionale e senza precauzione alcuna. I minatori entrano con fiamme libere, candele o lanterne, provocando esplosioni e ulteriori fuochi. «A causa dei gas tossici», dice uno dei medici del locale ospedale, «c’è un numero altissimo e sempre in crescita di casi di tubercolosi, asbestosi e altre malattie respiratorie, così come di allergie e altre malattie della pelle».
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Negli anni passati il governo e la Bccl avevano creato la Jharia Rehabilitation and Development Authority, che aveva elaborato un piano di evacuazione e riallocazione dei settecentomila abitanti della zona di Jharia. Qualcosa, però, non ha funzionato. Dopo otto anni sono state riallocate soltanto diecimila persone: gli altri rifiutano di andarsene, perché a quanto pare le famiglie evacuate sono state semplicemente spostate altrove, nel mezzo del nulla dove non possono trovare lavoro né provvedere a se stesse.
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Da anni i tribali e le Ong protestano contro il governo e contro la Bccl, ma nulla è cambiato. A complicare il tutto, si sono unite alle proteste di tribali e Ong anche i guerriglieri naxaliti, che usano sempre più di frequente il Jharkhand come base logistica, come sede di campi di addestramento dei guerriglieri o di reclutamento di giovani tribali: la povertà, la rabbia e l’insoddisfazione, unite alla pressoché totale latitanza delle istituzioni nella zona, hanno fornito ai Naxaliti una solida piattaforma su cui operare più o meno indisturbati sfruttando e acuendo abilmente le diseguaglianze sociali ed economiche.

Dal 2006 la guerriglia maoista è cresciuta in modo esponenziale nella zona, e colpisce di preferenza obiettivi legati all’industria e alle miniere. E la situazione è destinata a peggiorare. Nonostante lo stesso premier Narendra Modi abbia più volte citato la situazione di Jharia nei suoi discorsi, il fabbisogno di energia di una economia in pieno sviluppo come quella indiana non consente pause né passi indietro: l’India è il terzo paese al mondo per consumo di energia e importa la maggior parte del suo fabbisogno energetico. Ha un bisogno disperato di incrementare la produzione domestica, e di attrarre investimenti esteri nel triangolo industriale. Il resto è secondario.

L’India dei villaggi e dei tribali è destinata a perdersi per sempre nelle nebbie della Storia, respinta ai margini di un mondo che non riesce a capire né ad accettare. E per Jharia, secondo Agarwal, non c’è più speranza: «Il fuoco continua ad avanzare ed espandersi», conclude, «Non sappiamo di quanto e per quanti chilometri, ma si diffonde sempre più. Se la Bharat Coking Coal Ltd va avanti con il suo progetto di raddoppiare la produzione entro il 2020, apriranno nuove miniere e sempre più gente dovrà abbandonare le proprie case. Questo posto un giorno morirà, è destinato a morire. È solo questione di tempo, e di Jharia rimarrà traccia soltanto nei libri di storia».