
«È stato un atto di intelligenza politica e di umiltà personale da parte del leader di quel raggruppamento, Grzegorz Schetyna di cedere il posto a una donna appunto e una sua concorrente», dice Adam Michnik, direttore di Gazeta Wyborcza e da oltre cinquant’anni combattente per la democrazia. Al ruolo delle donne nella lotta per la libertà torneremo. Intanto, la signora riceve, quasi come se fosse una terapeuta di sostegno, le persone che fanno la fila per sedersi su una sedia posta di fronte alla sua, e senza un tavolo che li separi. Lei ha un sorriso gentile, un viso regolare, ha addosso una giacca nera, pantaloni e mocassini dello stesso colore, una camicetta bianca: un genere di eleganza un po’ provinciale, non ostentata. A un uomo venuto da un piccolo paese, promette che sì, i treni locali (tagliati come ovunque) verranno ripristinati, «ma avremo bisogno di tempo, non tutto subito». A una persona transessuale che le chiede di far sì che «gente come me non debba più lasciare questo Paese», dice che una volta vinte le elezioni, si adopererà per l’uguaglianza di tutti e tutte, ma evoca una «certa gradualità». Accarezza un beagle che accompagna un sostenitore dei diritti degli animali, chiede pazienza a un’ambientalista giovanissima («dobbiamo smetterla di usare il carbone, ma non possiamo licenziare tutti i minatori»). Colpisce la modalità dell’incontro, la capacità della signora di guardare dritto negli occhi l’interlocutore, di mostrare empatia. E anche, l’assenza delle guardie del corpo, delle macchine di lusso, degli accessori del potere, pur essendo lei vice presidente della Camera dei Deputati.

E ancora. Fra i temi principali della propaganda dell’attuale governo ci sono il patriottismo e la famiglia (un buon polacco fa parte di una «vera famiglia: padre, madre, figli», rispettoso della memoria degli antenati). Ecco, la signora Kidawa-Blonska non solo è da sempre sposata con lo stesso uomo, un regista di cinema, ma viene da una delle stirpi più importanti del Paese. Due dei suoi bisnonni furono, alla lettera, fra i fondatori dello Stato polacco nel 1918: uno, presidente della Repubblica, l’altro ministro delle Finanze. Lei stessa è cresciuta in una magione, vicina alla capitale, piena di cimeli e ricordi del passato. Infine, di lei, si dice che è incapace di dimostrare la propria ira, neanche in privato. E infatti, nei manifesti elettorali, è ritratta di fronte mentre abbraccia un’altra persona ripresa di spalle, in modo che non si veda se è un uomo o una donna e la scritta recita: “Cooperazione e non litigi”.
Eppure la Polonia dei suoi bisnonni nasce nel conflitto e nella lotta armata. E non si tratta di storia, ma di una questione di identità oggi. C’è un film di cui si parla molto in questi giorni e che ha il titolo: “Pilsudski”. Narra la vicenda di Jozef Pilsudski, socialista alla fine dell’Ottocento, convertitosi al nazionalismo, non di stampo etnico ma che contemplava invece una Polonia in cui potessero convivere quelle che erano chiamate “minoranze nazionali” (ebrei, ucraini, bielorussi), capo dello Stato nel 1918, nel 1926, autore di un sanguinario golpe contro il governo delle destre xenofobe e infine dittatore come tanti altri all’epoca in Europa. Per ogni polacco Pilsudski è l’equivalente di quello che rappresenta Garibaldi nell’immaginario italiano. Ebbene nelle quasi due ore del film si parla tantissimo di lotta armata, fra rapine ai treni postali, attentati ai gendarmi ed esponenti dell’Impero zarista. Il protagonista poi è un marito infedele (altro che famiglia modello) e infine non si vede un prete, un crocifisso, un ritratto della Madonna e non c’è riferimento alcuno a Dio né alla divina provvidenza. Creare una nazione è un atto di volontà, laico e che niente ha a che fare con la fede, è il messaggio che viene trasmesso agli spettatori, scolaresche presenti nelle sale comprese. Non solo, nati e cresciuti nella parte del Paese sottoposta al potere degli zar, i protagonisti del film sono bilingui, usano spesso nelle conversazioni il russo e non il polacco e si scopre che uno di loro, vero eroe della lotta per l’indipendenza il polacco lo parlava a malapena e con errori. Se vogliamo, una Polonia, non certamente di sinistra, ma non xenofoba e non fondamentalista sta ricostruendo una propria mitologia, scevra dalla narrazione etnica religiosa cara a Jaroslaw Kaczynski, leader del partito al potere Pis (Diritto e Giustizia) per il quale al di fuori della Chiesa non c’è salvezza.
E a proposito della Chiesa e della nazione. Che l’alleanza fra trono e altare sia alla base del sovranismo polacco, è una cosa risaputa. Ma in queste settimane della campagna elettorale colpisce la veemenza con cui esponenti dell’Episcopato attacchino coloro che contraddicono la loro predicazione. L’arcivescovo di Cracovia ha parlato di “peste arcobaleno” (i colori del movimento Lgbt), paragonabile alla “peste rossa” a cui la nazione deve resistere, così come ha saputo combattere contro i comunisti. I gay e le lesbiche sono il nemico interno, la quinta colonna che mina la moralità e l’integrità della Nazione. Sugli edifici di culto si trovano attaccati manifesti elettorali degli esponenti del partito di Kaczynski. Resta aperta la questione di chi comanda, se sia la destra a seguire le direttive di una Chiesa in evidente contrasto con papa Francesco, trattato quasi da eretico, o se invece i vescovi sono subalterni al governo nazionalista, in cambio di privilegi materiali e di egemonia culturale.
Un’egemonia che tuttavia comincia a dare segni di cedimento. Intanto, un recentissimo sondaggio dice che la maggioranza dei polacchi è favorevole alle unioni civili di persone dello stesso sesso. E poi, risulta che sebbene una metà dell’elettorato del partito Pis sia motivata da argomentazioni identitarie (Polonia antemurale della cristianità) un’altra metà invece vota questa formazione politica per interessi materiali. I governi di destra hanno distribuito molti soldi alle famiglie con figli (ne danno atto anche gli accaniti oppositori) e basta vedere un qualunque comizio del Pis, dove posizionato su un alto palco, Kaczynski, promette un salario minimo di mille euro a chi lavora, la quattordicesima ai pensionati e ancora soldi a tutti. Qualcuno a sinistra parla del “cinismo dei polacchi”, ma va dato atto al governo uscente di non aver portato lo Stato alla bancarotta come prevedeva invece l’opposizione. Anzi, nonostante la crisi mondiale l’economia polacca continua a crescere. Paese strano, la Polonia. Il consenso del Pis non viene intaccato dagli scandali, per esempio: la scoperta che in seno al ministero della Giustizia veniva organizzata una campagna di odio nei confronti di magistrati scomodi, oppure i sospetti nei confronti del presidente della Corte dei conti (vicinissimo al potere) di aver reso dichiarazioni di reddito non veritiere e di aver affittato un suo palazzo di proprietà a gente che a loro volta lo ha trasformato in un albergo a ore. E allora, chi oggi veramente rappresenta un’alternativa allo stato presente di cose sono le donne.
Agnieszka Holland è regista di cinema, allieva di Andrzej Wajda, autrice di film importanti, girati un po’ in tutto il mondo ha vissuto per lunghi anni in esilio. Suo padre, giornalista e comunista eretico morì cadendo da una finestra mentre la polizia di regime lo stava arrestando, negli anni Sessanta. Insomma, oggi, a 70 anni compiuti Holland, per biografia, genealogia, meriti conquistati in campo artistico e politico è un’icona dell’opposizione. Celebre una sua recente foto: lei sola fronteggia un centinaio di poliziotti armatissimi, schierati a protezione del potente di turno. Nella sua casa (piuttosto modesta), anche lei cita un sondaggio. Questa volta sulle paure e sulle preoccupazioni dei giovani, dai 18 ai 39 anni. Risulta che le donne temono la catastrofe climatica, l’eventuale uscita della Polonia dall’Unione europea e il peggioramento dei servizi sanitari. I maschi invece sono preoccupati dalla diffusione dei movimenti Lgbt e hanno paura che le famiglie si disgreghino. La maggioranza delle donne si dichiara di sinistra o di centro, mentre gli uomini propendono per la destra.
Spiega Holland, partendo da lontano: «In Polonia, fin dalla fine dell’Ottocento, le donne erano attive, anche nella sfera pubblica. Ma sempre nei ruoli subalterni. Ancora ai tempi di Solidarnosc, negli anni Ottanta, alle ragazze dell’opposizione veniva richiesto di rafforzare i maschi, di rassicurarli quando dimostravano mancanza di coraggio, di essere insomma un buon sostegno ai combattenti». Sorride e poi: «Ovviamente molte donne erano in prima linea. Organizzavano gli scioperi, dirigevano le riviste clandestine, partecipavano alle manifestazioni. Ma la loro presenza è stata cancellata dalla memoria ufficiale. Poi, con l’arrivo del femminismo è stata riscoperta e riscritta la vera storia». E nello specifico, il femminismo appunto, in Polonia è arrivato tardi, assieme alla democrazia. Ma arrivò in un momento in cui il nuovo potere aveva deciso di pagare alla Chiesa la cambiale sottoscritta negli anni di lotta contro il comunismo. Quella cambiale riguardava il diritto di autodeterminazione delle donne. Così, il Paese ha la legge più restrittiva di tutta l’Europa riguardante l’interruzione della gravidanza. E, spiega Holland, le donne si sono organizzate in difesa dei propri diritti e in concreto dei loro corpi. Un solo esempio: il Congresso delle donne, una rete che riunisce migliaia di attiviste e fornisce protezione e incoraggiamento alle donne nei più remoti paesini, là dove la libertà e la sessualità sono nemiche dichiarate dei parroci e del potere. «Molte donne stanno conquistando posizioni nelle amministrazioni locali, altre organizzano gruppi femminili in campagne e piccole città, alternativi alle parrocchie». A mo’ di provocazione, Holland dice: «Darei, per qualche anno, il diritto di voto solo alle donne». E poi seriamente: «Kaczynski è un avversario duro, un uomo colto che ha letto libri (conosce molto bene l’opera di Carl Schmitt), odia la modernità perché sa di non essere in grado di padroneggiarla e ha introdotto nella società il virus, pericoloso, della xenofobia. Per batterlo, occorre una narrazione radicalmente diversa. Al momento, è la narrazione al femminile».
Quella narrazione la troviamo al Museo dell’arte moderna, diretto da Joanna Mytkowska. In una mostra, intitolata “Never again”, sono esposte opere contro la guerra e contro il fascismo. «È l’ottantesimo anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale», dice Mytkowska. «Per me e per molti polacchi, è l’anno dell’antifascismo». La mostra ovviamente comprende sculture, foto e dipinti anche degli uomini. Ma l’assunto è per così dire femminile: la guerra e il fascismo sono prodotti del pensiero maschile. E anche: l’antifascismo non è una questione ideologica, ma una sfida dell’umanesimo e quindi occorre difendere la sua memoria e i suoi simboli dalla “corruzione dello stalinismo”. Ha molto coraggio la signora Mytkowska, nell’aver messo al centro della mostra una riproduzione di Guernica di Picasso, che a sua volta serviva come poster per il Festival della Gioventù nel lontano 1955, anni del comunismo regnante, e per averlo accostato a opere che parlano della guerra in Iraq. Recupero della storia scomoda, per immaginare un futuro che superi questa storia, in una Polonia dove il potere esalta invece l’atto eroico del glorioso passato delle insurrezioni armate (contestato peraltro dalle femministe che stanno scoprendo poetesse estremante critiche nei confronti della lotta armata). Dice Mytkowska: «Se per parlare dell’avvenire dobbiamo tornare e riflettere sui simboli del passato vuol dire che la situazione è al limite, ma quei simboli, rivisti criticamente, ci servono». Buona fortuna Polonia.