
Se quattro o venti centesimi vi sembran pochi... I diseredati del globo si ribellano ad ogni latitudine. Gli sconfitti dalla globalizzazione, stanchi di veder crescere la forbice tra ricchezza e povertà, riempiono le piazze, sfilano in corteo verso i palazzi del potere, scandiscono slogan, impauriscono i regnanti che talvolta cedono, si rimangia i provvedimenti quando ormai è troppo tardi.
La miccia lunga dello scontento ha esaurito la sua corsa e dopo l’esplosione non bastano le briciole. Quattro o venti centesimi di dollaro sono la causa scatenante che trascina un treno di insoddisfazione. La folla presenta un conto finale. Che non riguarda solo le tasche, il portafogli, contempla anche diritti negati, libertà, la richiesta di farla finita con caste troppo longeve nelle stanze del comando, dunque spesso corrotte. Fino a far scrivere a Bernard Guetta, su “Repubblica”, che risuonano contemporaneamente nelle strade le tre parole chiave della Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza, fraternità. E a scorgere i segni di un neo-illuminismo che avanza e che chiama in causa la ragione, il cervello, dopo la fase del populismo intestinale.
Troppo entusiasmo? Troppa fretta di annunciare una svolta epocale che segnerebbe la fine della fase liberista avviata da Reagan e dalla Thatcher con l’idea che “non esiste la società, esistono gli individui”? Forse. Le proteste hanno un minimo denominatore comune e caratteristiche assai diverse, spesso sono senza leader, movimenti a cui manca il catalizzatore del consenso. Ma, sebbene nell’Italia ombelicocentrica non ce ne siamo accorti, il 2019 è un anno di masse in rivolta. E magari Conakry, capitale della Guinea, o Khartum, capitale del Sudan, non fanno notizia. Tuttavia una mappa ragionata del pianeta terra e delle sue turbolenze ha tanti puntini rossi che denotano una malattia.
Il non ancora fatale, comunque significativo, 2019 ebbe il suo prologo nel suo predecessore 2018 vicino a noi, nella Francia dei gilet gialli, e il motivo fu l’annunciato aumento di 6,5 centesimi di euro al litri del gasolio e di 2,9 centesimi della benzina (se 6,5 centesimi vi sembran pochi...), per favorire la transizione ecologica. Fu la Francia rurale a sollevarsi, a invadere Parigi, a devastare i Campi Elisi, in odio alla Ville Lumière servita e riverita di mezzi pubblici mentre in campagna i tagli al welfare avevano cancellato treni e autobus, oltre a caserme della gendarmeria e piccoli ospedali. Rendendo l’automobile una necessità e non un piacere. Dopo 23 settimane di cortei ininterrotti e richieste che si sono fatte vieppiù politiche (“Macron démission”) nell’ultima primavera inoltrata il movimento che si vantava di non avere capi, o di averne una pluralità, si è disperso in mille rivoli. Non prima di aver filiato imitatori nel confinante Belgio o in Serbia. Belgrado si univa a un malcontento “cittadino” che aveva già contagiato Varsavia, Budapest, Podgorica, Tirana, una corposa fetta dell’Est stanca di presidenti o primi ministri variamente populisti ed eletti col consenso massiccio delle aree lontane dai grandi centri. Una peculiarità europea riscontrabile anche nella Gran Bretagna della mai consolidata Brexit dove le città contestavano l’uscita dall’Unione europea sancita con un referendum che avvalorava il dualismo urbanità contro ruralità. Risultati pratici scarsi o nulli. L’impasse inglese continua, a est la conquista delle opposizioni di qualche capoluogo mentre la gente si diradava nelle piazze rassegnandosi al dominio di leader oltremodo longevi (fino a quando?).

Emigrando dall’Europa, il vento dell’insoddisfazione ha cominciato a spirare nel mondo arabo, toccando Paesi che erano rimasti immuni dalla “primavera” del 2011 poi velocemente abortita. L’Algeria, ex colonia francese, ha interpretato come un affronto la volontà di candidarsi per un quinto mandato del presidente Bouteflika, colpito da un ictus nel 2013 e da allora mai più comparso in pubblico. Evitato il contagio di otto anni fa quando si erano infiammate le confinanti Tunisia e Libia, oltre al poco distante Egitto, grazie alle generose elargizioni permesse dal gas e dal petrolio (prezzi bassi per gli alimentari e aumento degli stipendi), ora la situazione è completamente mutata perché il valore del greggio si è di molto abbassato ed è impossibile sostenere un welfare generoso. Non solo. Il perenne ricatto della “stabilità” reso possibile dalla memoria della sanguinosa guerra civile degli anni Novanta non vale per le generazioni di giovani che si vogliono liberare di una gerontocrazia autoreferente e corrotta. Bouteflika ha dovuto rinunciare al suo proposito, sancendo una vittoria solo parziale degli insorti se le elezioni presidenziali sono state rimandate già due volte e chissà se si terranno davvero il 12 dicembre come previsto in una situazione nella quale ai candidati d’opposizione è di fatto impedito di fare campagna elettorale, le galere traboccano di prigionieri politici e le ong denunciano sparizioni di personaggi contrari al regime. Stessa sorte di Bouteflika ha subito il dittatore sudanese Omar al-Bashir, dopo 30 anni di regno incontrastato. La crisi economica e le condizioni di indigenza di una larga massa della popolazione hanno partorito oceaniche manifestazioni a Khartoum dopo l’annuncio che sarebbe stato triplicato il prezzo del pane. I circa mille morti in piazza sono stati il costo della deposizione di al-Bashir pur se il cammino verso una parvenza di democrazia è ancora lungo, con i militari restii a lasciare il potere e a condividere con i civili l’incerta fase di transizione.
Si è dimesso anche il premier libanese Saad Hariri, sull’onda delle sommosse seguite alla tassa sulle telefonate via social-network e nonostante il provvedimento sia stato ritirato. Lo sventurato Paese senza pace, però tradizionale paradiso del sistema bancario internazionale, affronta un’emergenza che il governatore della Banca centrale Riad Salameh non esita a definire vicina al collasso. Terzo debito pubblico al mondo, 152 per cento, deficit delle partite correnti al 25 per cento, entrare costituite in gran parte dall’Iva e che dunque colpiscono tutti allo stesso modo. E l’1 per cento della popolazione che detiene il 25 per cento dell ricchezza. Servizi pubblici obsoleti. E il tutto ingigantito dall’enorme afflusso di profughi della guerra siriana, un milione e mezzo in totale, significa uno ogni 4 abitanti. I giovani sono i protagonisti dei cortei, tutti insieme, stanchi delle divisioni sanguinose dei padri tra sunniti, sciiti, cristiani, drusi. Cosi come i loro coetanei perlopiù disoccupati sono i protagonisti dei disordini esplosi in Iraq e repressi dal regime o delle marce anti al Sisi nell’Egitto sotto il pugno di ferro dei militari.
L’America Latina è l’altra area emblematica. Il Cile paradigma e sintesi della “globalizzazione della protesta”. Dopo il colpo di stato di Augusto Pinochet, fu laggiù, alla “fine del mondo” che i Chicago Boys sperimentarono in modo violento il loro modello ultra-liberista con l’avallo del dittatore, tra i migliori amici di Margaret Thatcher. Era la fine degli Anni Settanta. Quarant’anni dopo ecco i risultati. L’uno per cento della popolazione detiene il 20 per cento della ricchezza, il salario medio è di circa 400 euro e le pensioni di 170 euro, in uno Stato dove il costo della vita è paragonabile a quello italiano. E dove dunque la promessa del benessere per tutti è stata largamente disattesa e la corsa ai consumi a rate ha gettato le famiglie sul lastrico dopo il vano inseguimento dello stile dei benestanti. L’aumento del biglietto della metropolitana (e va ricordato che Dilma Rousseff, in Brasile, cadde anche per il rincaro che il suo governo decise sul prezzo dell’autobus), poi ritirato dallo spaurito presidente della Repubblica Sebastian Pinera, ha acceso il fuoco sulle note della proverbiale canzone “El pueblo unido jamás será vencido”. La risposta è stata, se non nell’ampiezza, nelle modalità simile a quella del golpe. Ricorso ai militari, torture, violenze, come se il richiamo di una storia recente di modi spicci fosse irresistibile.
Spostandosi a nord, in Ecuador troviamo uno stato d’emergenza di due mesi vergato dal presidente Lenin Moreno che ha anche spostato la sede del governo dalla capitale Quito a Guayaquil. Perché a Quito tassisti, autotrasportatori, studenti, rappresentanti della popolazione indigena non hanno digerito la revoca dei sussidi per il carburante in vigore dagli Anni Settanta. Scontri con la polizia, arresti, sono il film pressoché quotidiano a causa della misura concordata con il Fondo Monetario internazionale in cambio di un credito di oltre 4 miliardi di dollari per il Paese. Lo stesso Fmi aveva imposto analoga misura ad Haiti e la benzina aveva sofferto un balzo del 50 per cento trascinando un malcontento dovuto anche alla scarsità dei beni di prima necessità e alla corruzione di cui è accusata la classe politica. Classe politica nel mirino anche in Perù e Bolivia per l’accusa di brogli.
La mappa non sarebbe completa se non si citassero almeno due casi pur dai presupposti molto diversi. Naturalmente Hong Kong e la rivolta degli ombrelli contro la legge sull’estradizione e più in generale contro l’ingerenza dell’ingombrante Cina. E la Barcellona della rabbia per le pesanti condanne ai leader indipendentisti, dove non tramonta il sogno secessionista. Pura politica? Non del tutto se la Catalogna, area più ricca della penisola iberica, rivendica la volontà di un maggior ritorno sul territorio delle tasse che devolve alla fiscalità generale. Tra soldi e diritti la connessione è molto più solida di quanto si creda.