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Incontriamo Gary Younge nel bar del quotidiano The Guardian, di cui è editorialista dopo oltre un decennio di corrispondenza dagli Usa. Il giornalista inglese, originario delle Barbados, ha al suo attivo reportage dai Caraibi, dall’Europa e dall’Africa, ha diretto il documentario “Angry, White and American” per Channel 4, un inquietante viaggio nell’America contemporanea, scrive sul periodico The Nation e ha vinto l’edizione 2017 del premio James Aronson Awards for Social Justice Journalism.
Siamo qui per parlare dell’ultimo dei suoi cinque libri: “Un altro giorno di morte in America” (in Italia pubblicato da Add editore): una mappatura spaziotemporale – straziante e commovente nell’empatia, odiosa e inaccettabile nella denuncia – di una giornata americana qualsiasi, in cui una media di sette adolescenti muoiono uccisi da armi da fuoco in omicidi spesso volontari, a volte accidentali. Dieci capitoli per dieci giovani vite, soprattutto afroamericane, spezzate violentemente, ridotte a poco più che cifre distratte nella prossima statistica. Un primato raggelante, ma non esclusivo degli Usa: i giornali di oggi riportano la morte di altri due minorenni britannici, anche se qui il bollettino di guerra non è legato alle gang, alla segregazione de facto razziale della società americana, o alla circolazione delle armi da fuoco nel nome della “libertà,” ma alla decurtazione dello stato sociale voluto dai Tories e alla proliferazione endemica di quelle da taglio.
Younge ne ha discusso con il regista Agostino Ferrente (autore dell’acclamato lungometraggio “Selfie”) alla terza edizione di Fill, Festival of Italian Literature London (2-3 novembre, www.fill.org.uk).
Che cosa l’ha spinta a scrivere questo libro, e che impatto psicologico ha avuto su di lei come padre?
«Mi ero dato una missione: trovare queste persone, le loro storie. All’inizio, quando scrivevo ai parenti o ai genitori delle giovani vittime per chiedere un’intervista, gli dicevo: «So già com’è morto suo figlio, vorrei sapere com’è vissuto». E alcune delle vicende servivano proprio a raccontarne la vita, a riempire quell’enorme vuoto. Ma anche cosa li divertiva attraverso i loro profili sui social media, i giochi, i primi approcci con le ragazze, i litigi e le riappacificazioni… fino ad arrivare al momento in cui muoiono. È stato emotivamente molto difficile. Ero lì per farmi raccontare le loro storie. Il che non significa certo che non m’importasse emotivamente di loro: ma in momenti come quello in cui la madre di Samuel descrive l’ambulanza che se lo portava via, il mio lavoro era chiederle come facesse a sapere che fosse già morto. E quando lei risponde «Perché avevano spento la sirena», c’era bisogno di soprassedere un momento per una questione di semplice rispetto. Così ho evitato di bussare alla porta e dire salve, eccomi, sono Gary Younge. Lasciavo nella posta una copia di un mio libro o di un articolo con una lettera, poi aspettavo. Se non si facevano vivi, riprovavo dopo un paio di settimane. Ho cercato di far loro spazio, rispettarli, creare la giusta condizione perché si aprissero».
«Scrivendo il libro ho cercato di ri-sensibilizzare il pubblico mostrando loro questi ragazzi, quello che facevano, i loro giochi. Anche quelli meno facili da comprendere, perché membri di gang, sono stati dei bimbi amati dalle madri. Quando una di loro dice «ora sono sollevata perché non devo più aspettare la telefonata che mi dice che è morto» è mostrarne bellezza e bruttezza, quel loro camminare in bilico fra infanzia, adolescenza e violenza. Avevano degli amici cui mancano, non sono solo un danno collaterale. La mia speranza è che, dopo aver letto il libro, alla notizia della morte di un giovane legato al mondo delle gang si dica «mi chiedo quale fosse la sua storia» e non «so già qual è la sua storia».
Il libro evidenzia come spesso il senso di colpa dei genitori vada oltre le condizioni oggettive che provocano queste morti e questa violenza e sia, anzi, interiorizzato.
«Ogni volta che chiedevo ai genitori le possibili cause, di solito rispondevano “i genitori,” anche quando significava assumersene la colpa. Credo sia dovuto al fatto che gli Usa sono un paese che non considera l’aspetto strutturale dei problemi, che demanda tutto alla responsabilità personale, dell’individuo. E si sa, l’individualismo non riconosce la struttura, dice «è colpa tua, non dovevi essere nel posto sbagliato al momento sbagliato». Non ti resta che aggrapparti a quello che puoi controllare e al fatalismo su quello che non puoi. Un fatalismo, questo sì, strutturale: «Sarai sempre povero, sarai sempre nero, ci saranno sempre armi, ci sarà sempre criminalità, la polizia continuerà a non preoccuparsene, ma tu avresti dovuto passare più tempo con i tuoi figli». Questo mi ha lasciato perplesso a lungo, anche perché non credo nella falsa coscienza: quel «non sanno quello che è meglio per loro», la trovo una spiegazione oziosa. Ma quest’autocritica significa attribuirsi la responsabilità di qualcosa su cui non si ha il minimo controllo. Un medico da me intervistato mi ha detto che nel distretto di South Chicago la violenza è tale da obbligarti ad accompagnare i figli in auto ovunque. Significa non poter lavorare, che i tuoi figli non possono uscire: li devi tenere dentro a una bolla. O non li fai uscire, o ti assumi la colpa della loro morte. Una situazione inaccettabile».
L’attaccamento isterico di parte della società statunitense al Secondo emendamento della Costituzione è legato alla tacita accettazione della propria genesi violenta e allo spazio incolmabile fra Stato e individuo. Come si supera uno scoglio simile?
«I segnali sono contraddittori: il numero dei detentori di armi da fuoco cala, ma il numero delle armi sale. Insomma, gli Usa stanno diventando una società-fortezza. C’è una maggioranza che vuole un controllo delle armi, ma non è riflesso dalla politica, che è viziata dal “gerrymandering” (il disegnare ad arte collegi elettorali nel sistema maggioritario in modo da ottenere più seggi, ndr) e comprata dalle lobby. Mi si accusa di non indicare vie d’uscita, ma questo è un libro di denuncia, non offre soluzioni. Molto dipende da una cultura individualista, dove sei abituato a difendere il territorio e la famiglia senza aspettare aiuti esterni. È il mito della frontiera, della mascolinità, dell’autosufficienza che guidano l’economia e la politica estera americane da ben prima di Trump. Allo stesso modo, la Gran Bretagna di Brexit è vittima del proprio mito imperiale. La buona notizia è che i miti sono sostituibili con altri. Non c’è nulla di intrinsecamente patologico negli americani».
Tuttavia Usa e Uk, i due massimi propugnatori del libero mercato, dalla Grande Recessione del 2008 in poi, paiono aver imboccato un’andata verso il peggio del proprio passato.
«In un certo senso negli Usa la guerra civile non è mai terminata: c’è stata una tregua, ora è finita anche quella. L’aumento delle armi è anche dovuto al fatto che attorno al 2040 i bianchi saranno una minoranza e che la salute e la vita della classe operaia bianca americana peggiora e si accorcia. L’economia cinese tra non molto supererà quella americana; i combustibili fossili si stanno esaurendo; c’era un modello, razziale, economico, etnico su cui l’America è stata fondata - che includeva genocidio, schiavitù, segregazione e altre forme di supremazia bianca - che si sta esaurendo anch’esso. Insomma, c’è una futura minoranza bianca sempre più offesa e aggressiva che difende il proprio senso di superiorità. Non molto diverso, dopotutto, da quello che hanno fatto i francesi in Algeria. Ma se guardiamo alla reazione della Nuova Zelanda alla strage nella sinagoga, forse c’è speranza. E credo che l’avvento di Trump obblighi a una riflessione sui limiti del liberalismo dei Clinton e degli Obama, nella misura in cui Brexit ha fatto lo stesso in Gran Bretagna, dove c’è bisogno di interrogarsi sull’immigrazione, sul nostro posto nel mondo di Paese post-imperiale dopo la crisi di Suez, anziché rispondere come fa la destra con i soliti miti nazionalistici: la battaglia d’Inghilterra, l’evacuazione di Dunkirk, le Falklands».
C’è contrasto fra la reazione semiletargica dei media alle continue morti di teenager neri in Gran Bretagna e al subitaneo loro risveglio quando a morire è un giovane bianco. Lei come combina etnia e classe?
«Vanno comprese assieme, o separatamente fraintese: il termine è “intersezionalismo”. È vero che a Londra i morti sono a stragrande maggioranza neri, è innegabile. E pur essendoci molti ragazzi bianchi poveri, a Londra non ne muoiono altrettanti. Ma nel resto del Paese sono i ragazzi soprattutto bianchi a morire. Come in America si è riusciti a confondere povertà con etnia, nonostante la maggior parte dei poveri non siano neri, la povertà di welfare passa come un problema loro e lo stesso è successo qui con gli accoltellamenti. Anche se a livello nazionale la maggior parte delle morti per arma da taglio non colpisce prevalentemente la comunità afrocaraibica, anche la working class bianca la crede una sorta di malattia etnica, quando non è altro che una patologia di classe. Allo stesso modo, quando a morire sono ragazzi poveri, i media non s’indignano come quando a perdere la vita è un benestante».
Crede che negli Stati Uniti e nel Regno Unito una sinistra degna di questo nome abbia delle chance?
«Credo che l’agenda neoliberale sia crollata e che il concetto di cosa possa sostituirla sia tutto da giocare. Chiunque rimpiazzi Corbyn al timore del partito laburista, non si tornerà ai Gordon Brown o agli Ed Miliband: quell’epoca è finita. E negli Stati Uniti personaggi come Bernie Sanders ed Elizabeth Warren finalmente pongono questioni inaudite, come l’assistenza sanitaria, l’istruzione superiore per tutti, i confini decriminalizzati. C’è un riallineamento embrionale su ciò che può essere considerato possibile. C’è speranza».
Ha collaborato Marco Magini