Da nemici a interlocutori politici. Crollati nel 2001 sotto i bombardamenti di Bush, gli "studenti del Corano" si preparano a tornare al potere. Perché per fermare i terroristi di oggi gli americani si affidano a quelli di ieri

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Da terroristi a interlocutori politici. Da nemici ad alleati. La parabola dei talebani, con i quali l’inviato di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, sta negoziando un accordo di pace, certifica la sconfitta degli americani nella guerra afghana. Ma racconta anche un più ampio passaggio storico: il fallimento definitivo della “war on terror” e del paradigma militarista che ha guidato la politica estera Usa. È una storia ventennale. Inizia in Afghanistan ma finisce per coinvolgere l’Asia e il Medio Oriente e per vie indirette gran parte del globo. Riguarda anche l’Italia e i nostri governi presenti e passati. Divisi su molte cose, ma accomunati dalla subalternità alla Nato e agli Stati Uniti.

Il finale, scritto da tempo, è stato rivelato poche settimane fa, quando il presidente Trump ha incaricato l’ex ambasciatore statunitense in Afghanistan e Iraq, Khalilzad, di imbastire il negoziato con i barbuti. Per ora c’è una bozza di accordo. Prevede il ritiro delle truppe straniere in cambio del loro impegno a rompere ogni legame con i gruppi jihadisti dalla vocazione globale. Che l’intesa diventi un accordo vero e proprio e che l’accordo conduca davvero alla pace è tutto da vedere. Ma il finale è già dato: a Kabul, nei palazzi del potere torneremo a vedere turbantoni svolazzanti e pashtun dalla barba lunga.

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Se fosse ancora vivo, mullah Omar, fondatore e a lungo leader dei turbanti neri, festeggerebbe. Vista con gli occhi dei talebani, è una vittoria netta. Mullah di campagna finiti a governare un intero Paese dal 1994, paria per la comunità internazionale, nel 2001 hanno visto il loro Emirato islamico crollare sotto i colpi dei bombardieri inviati dal texano Bush come rappresaglia per gli attacchi dell’11 settembre. Il responsabile, Osama bin Laden, viveva dal 1996 in Afghanistan. Per il presidente del “con noi o contro di noi” erano co-responsabili. Meritavano una lezione.

Riparati nel vicino Pakistan e poi rientrati kalashnikov sulle spalle e sacche gonfie di danaro attraversando la Durand Line, la linea di confine coloniale che separa i pashtun afghani dai pathan del Paese dei puri, hanno resistito per 18 anni all’offensiva internazionale guidata dalla grande potenza militare a stelle e strisce. Oggi sul terreno ci sono circa 17 mila militari stranieri (circa 900 gli italiani), ma in passato ce ne sono stati fino a 130 mila. Il loro obiettivo era eliminare i talebani o indurli alla resa. Ma i militanti con i sandali ai piedi hanno mostrato due cose. Da una parte che nelle nuove guerre asimmetriche, ibride e intermittenti, la guerriglia non è l’ultimo residuo del Novecento, ma una strategia d’avanguardia, vincente. Dall’altra, di avere la pelle dura. Tanto da essersi meritati una promozione sul campo. Ieri terroristi, oggi sono invitati al tavolo negoziale, coccolati e trattati con i guanti bianchi.

Qui la storia va raccontata con altri occhi, quelli di Zalmay Khalilzad, il negoziatore. Nato in Afghanistan e cresciuto negli Stati Uniti, non è un diplomatico qualsiasi. Anche se spesso all’ombra di altri, ha contribuito a delineare la politica estera americana degli ultimi decenni. Nel 1992 è stato lui a redigere il testo della famosa “dottrina Wolfowitz”, dal nome dell’allora sottosegretario alla Difesa. Una dottrina muscolare, aggressiva, centrata sulla difesa a tutti costi del “momento unipolare”, il periodo successivo alla caduta dell’impero sovietico. Nel testo originale si rivendicava in modo netto il diritto degli Stati Uniti a usare ogni mezzo per prevenire l’emergere di qualsiasi potenza rivale.

Quando la bozza uscì sulla stampa, Khalilzad fu costretto a rimetterci le mani. Toni ammorbiditi, obiettivo invariato: gli Stati Uniti devono proteggere a tutti i costi la propria egemonia globale. Rivisitata e adattata alle mutate condizioni geopolitiche, è a questa dottrina che i neoconservatori hanno fatto appello una volta entrati nelle stanze dei bottoni sotto la presidenza di George W. Bush. La guerra al terrore era figlia di quella dottrina. Nessun compromesso, niente diplomazia. Solo bombe e attacchi preventivi. Ironia della sorte, oggi è proprio Khalilzad a negoziare con i talebani. Se la loro parabola è quella di terroristi diventati interlocutori politici, quella di Khalilzad incarna le contraddizioni della guerra al terrore, costata miliardi di dollari e centinaia di migliaia di vite umane.

Per Bush e per i “neocons” è l’occasione per riaffermare l’egemonia statunitense nel mondo, la necessaria risposta alle nuove sfide del jihadismo globale. Che chiedono nuovi codici di condotta: per scatenare un conflitto basta un giudizio morale, non più giuridico. Non più legali o illegali, le guerre sono giuste o ingiuste. Una lotta del bene contro il male. Dei popoli civilizzati e portatori di democrazia contro i selvaggi barbuti dei territori di frontiera. Brutti, sporchi e cattivi, i talebani incarnano alla perfezione il ruolo. Peccato che gli sia stato assegnato da altri. L’etichetta di jihadisti, la stessa usata per i militanti di al-Qaeda e poi dello Stato islamico, non gli è mai andata a genio. «Il nostro è un jihad nazionale, vogliamo liberare il Paese dalle truppe di occupazione, non minacciamo nessun altro, non siamo terroristi». Così hanno ripetuto per anni. La visione manichea della guerra al terrore ha impedito che venissero ascoltati.

Tutti i militanti islamisti sono uguali, ripetevano al Dipartimento di Stato e al Pentagono. Talebani e al-Qaeda sono la stessa cosa. Niente di meno vero. Diversi per ideologia, obiettivi strategici, priorità tattiche, hanno collaborato in modo occasionale. Il rapporto è stato problematico e conflittuale perfino ai tempi di Bin Laden. Il nemico che anche l’Italia ha combattuto per tutti questi anni è un nemico inventato, creato dalle politiche sbagliate degli Usa. An Enemy We Created, per dirla con il titolo del libro sui rapporti tra al-Qaeda e talebani dei ricercatori Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn.

Trump non va per il sottile. Non ama le sottigliezze. Ma è a lui che si deve la svolta. In campagna elettorale aveva promesso che avrebbe riportato a casa i «nostri soldati», ritirandoli da guerre troppo costose, inutili e controproducenti. «Laggiù ci odiano», «Time to come home & rebuild». A ricostruire l’Afghanistan, che ci pensi qualcun altro. Già nel 2011 Hillary Clinton, allora segretaria di Stato, parlava di un «responsabile processo di riconciliazione» con i talebani. Ma Obama ha tergiversato. Ora tocca al tycoon che si vanta di vincere sempre. «In Afghanistan abbiamo picchiato talmente duro che oggi parliamo di pace», ha scritto su Twitter. La verità è che il negoziato serve a gestire la sconfitta, a ritirarsi senza perdere del tutto la faccia.

Se a perdere la faccia e la residua legittimità è il governo afghano, escluso per ora dal negoziato, poco importa. Il presidente Ghani è preoccupato. Teme che gli Stati Uniti possano incassare una “pace separata”, che approfittino di un eventuale accordo per tirare i remi in barca e abdicare alle proprie responsabilità. Teme che Trump, ostile al multilateralismo, dimentichi che in Afghanistan si combatte anche una guerra per procura, regionale. Teme l’impazienza dell’omologo americano. Trump vuole chiudere la partita in fretta, Ghani immagina un processo di 5 anni che dia solidità all’accordo e che ne rafforzi la componente sociale, oltre che politica. «La guerra la combattiamo noi, sono nostre le vite perse», ha dichiarato al recente Forum economico di Davos. Dal 2014, «sono 45 mila i soldati afghani morti, 72 invece le vittime tra le truppe straniere».

Khalilzad lo rassicura, inutilmente. Visto dall’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul, il futuro è incerto. I talebani continuano a rifiutarsi di incontrare i rappresentanti del governo afghano, «fantoccio degli americani». Che li hanno promossi due volte. Dietro al negoziato, infatti, c’è anche una scelta strategica. I talebani servono nella guerra al terrorismo transnazionale dello Stato islamico. La “provincia del Khorasan”, la branca locale dell’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi, è entrata a piedi pari nella partita afghana dalla fine del 2014. Contendono uomini, fondi, territorio ai Talebani. Per arginare i terroristi di oggi, gli americani chiedono aiuto a quelli di ieri. Prima nemici, ora interlocutori politici. Un tempo nemici, oggi alleati. Paradossi della war on terror, pagati dal popolo afghano.